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Channel: PierGiorgio Gawronski – Il Fatto Quotidiano
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Banca d’Italia, la deludente relazione del Governatore

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In ‘Cronache dalla Galassia’, Isaac Asimov descrive l’imperialismo nascente del pianeta Terminus. Lo strumento del dominio è una religione creata ad arte: il vertice ecclesiale è in realtà controllato dal governo di Terminus. Dai pianeti vicini giungono seminaristi per ricevere una ‘formazione religiosa’. La Vera Fede – esportata nei pianeti vicini –  crea colà una fedeltà ‘religiosa’ che si rivela più forte di ogni altra. Quando i governi locali varano politiche sgradite/ostili a Terminus, scoprono che Terminus controlla cuori, menti, e istituzioni. Le politiche sgradite a Terminus sono impossibili a causa dell’insubordinazione strisciante. I governi locali finiscono per cadere ed essere sostituiti da governi amici del piccolo e disarmato Terminus.

Negli anni 1974-80, fra torture e omicidi di massa, i cileni sbigottiti si chiesero come la mala pianta dei generali golpisti fosse cresciuta, in un paese democratico da oltre 60 anni, senza che se ne fossero accorti. I militari avevano un’ideologia, elaborata in ambienti americani di destra (la scuola militare Usa di Panama dove venivano formati), che giustificava la tortura, l’omicidio, il Golpe contro la minaccia comunista, in nome della ‘Sicurezza Nazionale’. La dottrina era pubblica (anche se sorvolava sui dettagli sordidi). Ma nessuno negli anni “60 leggeva (tantomeno fra le righe) le riviste dei militari. Allende aveva sfidato gli Stati Uniti, ma non si era accorto di avere il nemico in casa.

Ieri sul Sole 24 Ore Stefano Manzocchi commenta la Relazione del Governatore della Banca d’Italia. Grazie a una serie impressionante di salti logici, arriva alla conclusione che il Governatore ha ragione: contro la crisi non si può, non si deve fare nulla. “Un Governatore timido?… Non direi. Piuttosto, una Banca d’Italia che rivendica la sua appartenenza all’Eurosistema [che ormai] ha interiorizzato… fino a vedere un suo uomo alla Presidenza della BCE”. Come il prof. Manzocchi giustifica la paralisi della politica economica di fronte alla crisi?

(1)  “Lo Statuto della Bce pone la stabilità dei prezzi come suo obiettivo, ma non quella dei redditi o dell’occupazione”. Falso. Lo Statuto dice che la stabilità dei prezzi (cioè: inflazione al 2%) è l’obiettivo prioritario, ma il secondo obiettivo, una volta raggiunta la stabilità dei prezzi, è la crescita dei redditi (strettamente legata all’occupazione). E l’inflazione in Europa è all’1,2-1,4%.

(2)  “Divergenze ed eterogeneità permangono forti nella zona Euro, limitando l’azione della BCE”. Conclusione falsa. Non solo l’Italia, tutta l’Eurozona, considerata nel suo insieme, è in recessione e a rischio deflazione.

(3)  “Occorre adattare istituzioni e politiche europee per consentire all’Euro di sopravvivere [giusto, ma come?] e la direzione è indicata da Visco: integrazione bancaria, fiscale, e politica”. Falso. Questo linguaggio nasconde l’imposizione eterna e più stretta delle stesse politiche inadeguate. Passando sopra alle Costituzioni (L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro). Cambiandole, con larghe intese, se necessario.

(4)  “Sull’Italia i toni del Governatore sono quasi drammatici: ‘La recessione sta segnando profondamente il potenziale produttivo…’”. Eh? Le politiche Monti/Bankitalia/Eu non dovevano far aumentare dell’11% il Pil potenziale, a fronte di un sacrificio del Pil e dell’occupazione ‘di breve termine’? Invece abbiamo accettato di subire disastri per raccogliere in cambio… altri disastri? In democrazia chi ha promosso una strategia fallimentare, chi ha mancato in modo plateale gli obiettivi (auto attribuiti), non dovrebbe andarsene, fare spazio ad altri, capaci di raggiungere quegli obiettivi? Forse non siamo in democrazia.

(5)  “I tempi non consentono più … certe ricette shock… sintomo di provincialismo…” Cioè: “I tempi” non ci consentono più tutte le ricette atte a fermare rapidamente la crisi. “Il mondo è cambiato e [in caso di uscita dall’Euro] non ci sarebbe concesso di svalutare del 30%...”. Perché no? Il Giappone lo ha appena fatto. Chi e come ce lo impedirebbe?

(6) “Più spesa pubblica per sostenere consumi e investimenti può rappresentare la soluzione? Sì, ma seguendo le direttive concordate con la UE”. Perché? Non lo dice. La Germania nel 2004, quando ebbe problemi, non solo violò il Patto di Stabilità, lo modificò ad (personam) nationem. Ma noi invece, guai a violare il sacro limite del 3% del deficit/Pil!

(7)  Arriva infine la motivazione di tanta incongruità: “In Italia le riforme non si sono mai fatte in tempi di prosperità”. Sarà, e allora? In Cile il comunismo non era mai stato sradicato senza un po’ di tortura, e allora?

(8)  “Quelle indicate da Bankitalia sono soluzioni insufficienti? Visco sembra sottoscrivere la posizione secondo cui la politica macroeconomica, anche fuori dai vincoli europei, non può da sola modificare il declino che il nostro paese ha intrapreso da almeno 20 anni”. Da sola forse no, ma un contributo non potrebbe darlo? Inoltre per ora a noi basterebbe fermare, se non il declino (che fino al 2007 ha portato a un mero rallentamento della crescita), almeno la crisi. Cioè: il crollo della domanda e dell’occupazione, non il declino della crescita della produttività. Capisce la differenza, prof. Manzocchi?

Certi personaggi, che hanno il sedere al caldo, guardano scivolare le classi inferiori nel baratro senza muovere un dito. Questa è omissione di soccorso. Tradimento. Lotta di classe unilaterale contro i poveracci. E la religione neoliberista fa da collante.

 


Caso Kazakistan: caro Letta, ora vogliamo i fatti

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Gentile signor Presidente del Consiglio, nonostante l’enorme tristezza e l’umiliazione che provo – come italiano –  per il caso della moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov – signora Shalabayeva -, poiché in quest’a prima parte d’estate siamo tutti stanchi e nervosi, preferisco non soffiare anch’io sul fuoco della polemica politica circa le responsabilità per l’illegale espatrio forzoso.

Quello che mi muove è un altro sentimento, che oggi si somma agli altri: la paura. Il dettagliatissimo resoconto della Shalabayeva, pubblicato dal Financial Times, è stato smentito dalla Questura, ma senza nessuna spiegazione: ancora non abbiamo una versione ufficiale dei fatti. E però la facilità della ‘cattura’ della donna kazaca e della figlia sembrerebbe aver deluso i nostri bellicosi agenti: è stata meno ‘eroica’ del previsto. Oltre a insultare e terrorizzare la donna e la bambina, non potevano proprio andare. Ma poi, pare, hanno trovato un cognato da pestare. Signor Presidente: potrebbe succedere anche a me, alla mia famiglia?

L’oligarchia politica, pur di mantenersi al potere, svuota di contenuto democratico i partiti, organizza finte primarie ‘aperte’, ci priva della possibilità di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento, cambia la Costituzione (che nessuno – salvo i politici e qualche svitato – vuole cambiare), impone politiche economiche impopolari e autodistruttive. Intende anche continuare a tollerare modalità operative violente della Polizia, irrispettose dell’incolumità fisica e morale e della dignità dei residenti (che pagano lo stipendio dei funzionari PS)? Magari per il solo fatto di scrivere questo post, debbo temere che un giorno la Polizia entrerà in casa mia senza qualificarsi, minacciando la mia famiglia, e rompendomi il naso? Tanto per sapere, per organizzarmi il futuro.

Lo so, c’è quella smentita della Questura. E d’altra parte sembrerebbe esserci un certificato del pronto soccorso che prova il contrario…E le modalità descritte paiono simili a molti altri episodi del passato, alcuni dei quali finiti tragicamente…Vorrei perciò essere rassicurato: da Lei, dal Governo, dal Parlamento del mio paese (se questo paese è ancora ‘mio’ e non solo ‘vostro’). Un ’poliziotto cattivo’, ogni tanto, capita nelle migliori democrazie. Ma ciò che rassicura quei cittadini è che il poliziotto cattivo – quando viene beccato -  non viene protetto da smentite di facciata, cortine fumogene, insabbiamenti: viene degradato, licenziato, condannato; e i colleghi insabbiatori vengono trattati anche peggio! Dimodoché le forze dell’ordine conservano tutti gli incentivi a restare corretti. Per esempio, in Svizzera. Ciò che mi preoccupa, Signor Presidente, è che dopo lo scandalo del G8 di Genova (2001) la classe politica – e Lei stesso – non ha mai proposto ed approvato alcuni provvedimenti semplici, da più parti invocati, vigenti in molti paesi avanzati, che cambierebbero gli incentivi e la cultura della polizia. Ecco il punto: Lei è partito bene, rifiutandosi di insabbiare questa storia. Intende andare fino in fondo e trarne le conseguenze, varando le riformine che aspettiamo da dodici anni, o intende lasciare che si continui indolentemente su questa china?

L’altra paura che ho dentro è per la sorte delle due kazake: sono ora in mano ai torturatori di Nazarbayev. Il quale, con tutta evidenza, ha organizzato questo rapimento (di fatto) per ricattare il marito-padre, rifugiato a Londra. E questo è inaccettabile. Signor Presidente, se vivo in un paese democratico, allora il Suo governo è il mio governo, perciò mi sento corresponsabile, e non avrò pace finché la situazione di Alma e Alua non si sarà risolta. Lei intende inalberarsi come ha fatto l’India con noi nel caso dei due Marò? Intende chiedere il rimpatrio in Italia, sulla base del fatto che l’espatrio è stato illegale? Intende far percepire in qualche modo al Kazakistan il diverso modo di pensare e di reagire di un paese democratico, al di là dei deplorevoli errori commessi? L’idea dell’Europa si giustifica spesso con l’argomento: ‘Uniti, ci facciamo rispettare di più nel mondo’: vogliamo vedere se è vero?

Cordialmente suo.

Austerità e riforme strutturali: Alberto Bisin si è fermato al 2007

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Oh mamma! Il debito pubblico ha sfondato quota 130%, e l’economista ed editorialista di Repubblica Alberto Bisin ripropone austerità cum riforme strutturali. Il sito Wallstreetitalia mi ha chiesto che ne penso: ma l’intervista pubblicata contiene affermazioni sopra le righe in cui non mi riconosco: “Sono per le soluzioni estreme!” (figuriamoci), “Bisin… difende un sistema di pensiero con cui ha fatto carriera!” (non so nulla della carriera di Bisin), ecc. Altre presunte mie dichiarazioni le hanno prese da un articolo di Maggio, facendo confusione. Ieri ha risposto Bisin inviperito… Non ci sto a farmi trascinare in una rissa: non giova a fare chiarezza. E poi Bisin mi era anche simpatico. Perciò replico sul mio blog, in altro stile.

Prima i punti in comune. Il debito pubblico è quasi fuori controllo. Rischiamo di finire molto male. Per salvarci occorre tornare a crescere: è il punto cruciale. Altrimenti si devono prendere provvedimenti straordinari (ristrutturare il debito, o altro), meglio prima che dopo. La vendita di asset pubblici e la patrimoniale sono strade poco utili. Fin qui siamo più o meno d’accordo. Da qui iniziano le divergenze.

Dice Bisin: “L’aumento del debito è dovuto anche alla recessione che limita le entrate. Questo è un problema che speriamo tenda a risolversi da se con un po’ di crescita a breve trainata dall’estero” (trainata, cioè, dalla domanda estera di prodotti italiani). E io sono basito. Dopo 5 anni, sul problema cruciale, la proposta del neoliberismo italiano è: speriamo nello stellone!

Dopodiché, arrivano altre proposte, su altre questioni. E io basisco al quadrato. Primo, se il problema è l’insufficienza della domanda, uno si aspetterebbe delle idee su come alimentare la domanda. Se ho la polmonite e 40 di febbre, non m’interessa una cura per… l’artrite! E invece Bisin torna subito alle politiche dell’offerta. Secondo: è tutto contraddetto dalla realtà. “Un po’ di crescita a breve” vuol dire, se non capisco male, che la depressione della domanda è un problema di breve periodo, che “si risolve da sé”, un problema triviale, di cui gli economisti non devono occuparsi. Però, sono cinque anni che la domanda è depressa, che i liberisti aspettano che il ciclo si riprenda, che fanno previsioni ottimiste regolarmente smentite dai fatti. Il mondo, Bisin, non va come prevede la (sua) teoria?

Questa storia della domanda e dell’offerta è bene spiegarla meglio. Fino al 2007  l’Italia cresceva poco, e in molte parti del paese c’era piena occupazione. Perché? Perché la gente al lavoro non innovava e non aumentava la sua produttività. Il vincolo alla crescita era dal lato dell’offerta: la capacità produttiva non cresceva (abbastanza). Se anche, improvvisamente, le famiglie italiane si fossero messe a spendere molto di più, il Pil sarebbe aumentato (molto)? No! Perché le risorse produttive erano già tutte utilizzate: indisponibili. L’unico modo per crescere sarebbe stato aumentare la produttività di chi già lavorava. Ergo: occorrevano riforme strutturali: della P.A., della giustizia, ecc. (occorrono ancora). Ma nel 2008 è successo un fatto totalmente nuovo: nel IV trim. i consumi sono improvvisamente crollati del 5%. Subito, nel I trim. 2009 sono crollati gli acquisti di macchinari e beni di investimento da parte delle imprese. I prodotti invenduti hanno intasato i magazzini. Perché, a ruota, la produzione è scesa? Ci hanno bombardato le fabbriche? Abbiamo dimenticato come si produce? Le imprese hanno avuto un crollo di efficienza? No, perdinci! Non sapevano più dove mettere la roba.

La domanda, da allora, è rimasta sempre molto al di sotto del ‘potenziale’ produttivo, e ha continuato a scendere. Che senso ha allora riproporre la cura dell’offerta ignorando la domanda?

Il senso è questo. Per cinque anni i liberisti hanno detto: la caduta della domanda è temporanea, di breve periodo, l’unica cosa che conta nel lungo periodo è l’offerta. Monti: “Il Pil potenziale crescerà dell’11% con le riforme strutturali…”. E quello reale? Keynes aveva ragione: “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Cioè, solo in piena occupazione o in fasi di ciclo positivo le riforme strutturali funzionano. Ma in depressione, no. Oggi, il Pil e anche il ‘Pil potenziale’ continuano a essere falcidiati dalla crisi della domanda: imprese chiuse, imprenditori suicidi, giovani depressi, figli non concepiti, gente che se ne va, gli Ide crollati, ecc.

Bisin sostiene che l’austerità non fa male all’economia: è solo un certo tipo di austerità che fa male. “Dovevano tagliare le spese… Purtroppo invece la classe politica italiana ha agito solo sulle tasse”. Ma nel triennio 2010-2012 la spesa pubblica al netto degli interessi è scesa di venti miliardi: già fatto! Inoltre, il ragionamento di Bisin  – ‘se mi tassano lavoro meno => si riduce la capacità produttiva’ – ancora una volta ignora la natura della crisi. Un ragionamento corretto, confermato dal 98% degli studi empirici che conosco (fa eccezione Alesina), porta alla ricetta opposta: “Tasso 100 e sottraggo 60 alla domanda di prodotti italiani, 20 ai prodotti stranieri e 20 al risparmio. Poi spendo i 100 su prodotti italiani, infrastrutture, ecc. =  Domanda e Pil salgono di 100-60 = +40”. Ahimé, le tesi di Bisin sono ribadite ogni giorno dalla Bce. Altrove i responsabili economici hanno idee diverse, e si vede!

Caro Bisin, sì, sono in grado di citarLe un mio lavoro (2005) in cui critico l’allentamento del Patto di Stabilità e suggerisco di moderare la spesa per affrontare meglio le recessioni in futuro. Meno male! Altrimenti, temo, qualcuno ne avrebbe approfittato per insinuare la solita calunnia: ‘i keynesiani vogliono sempre aumentare la spesa pubblica’. Ma Lei a che titolo me lo chiede, visto che a sua volta avversa la spesa durante la recessione? Lei non sa nulla delle mie proposte per uscire dalla crisi: ora non ho spazio, ma non giudichi dalle genericità apparse su WSI. Già una volta ho avuto ragione io. ”Stracciare i Trattati Eu” non si può, e lei lo sa. Trovo curioso che voglia scegliersi gli interlocutori (possibilmente bocconiani). Non mi dilungo su altre tristezze… Ma meglio curare i malati con “acqua fresca” che con i salassi.

Alle origini del declino con la proposta di Fabrizio Barca

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Una delle contraddizioni più profonde del liberismo italiano è quella di voler ‘fermare il declino’ ignorando la crisi in atto.

  • Con ‘declino’ ci si riferisce al rallentamento dello sviluppo della capacità produttiva del paese (crescita della produttività del lavoro ed altri fattori impiegati); la cura sono le riforme strutturali.
  • Con ‘crisi’ ci si riferisce al non utilizzo (disoccupazione) di parte dei fattori, a causa della depressione della domanda aggregata; la cura è lo stimolo alla domanda (e ci sono 25 modi diversi per realizzarlo).

È ormai chiaro – dai dati che giungono da tutta Europa – che ‘la crisi’ falcia la capacità produttiva molto più di quanto le riforme strutturali non riescano ad ampliarla. C’è però un’altra contraddizione nella strategia liberista, che impregna il Pd e ‘Repubblica’. Le politiche di austerità, le riforme strutturali (p.es. ulteriori liberalizzazioni del mercato del lavoro), le nuove istituzioni e regole (p.es. il Fiscal Compact, le riforme costituzionali) che vengono proposte non corrispondono affatto a quelle necessarie per ‘fermare la crisi’, che oggi l’elettorato (giustamente) chiede. Nella visione paternalista dei liberisti i (loro) esperti sanno quali politiche fanno bene al popolo; il popolo bue invece non lo sa o – se lo sa – non ha il coraggio di affrontare ‘i costi di breve termine’: come un bambino ha paura dell’iniezione. La crisi è la grande occasione per imporre le riforme necessarie a portarci nel paradiso neoliberista: l’austerità serve a prolungare crisi, allarme, dolore, e far accettare la cura. Ma bisogna anche coartare la volontà popolare, rendendo le istituzioni meno democratiche. E ciò aggrava il declino del paese.

Consideriamo le riforme più condivisibili: i tempi della giustizia, la P.A., la gestione delle grandi imprese, l’abolizione dei conflitti d’interesse, dei sussidi alle imprese, le liberalizzazioni, un antitrust libero da condizionamenti politici, ecc. Hanno mai riflettuto i liberisti sul perché queste riforme, pur così necessarie, non si riesce a farle? Semplice: perché la democrazia non funziona. Perciò le lobbies riescono sempre a prevalere sull’interesse generale perpetuando posizioni di rendita che paralizzano il merito, la qualità, l’invenzione, l’innovazione. Solo una democrazia pluralista, partecipata, inclusiva, dove il potere è contendibile, diffuso, rappresentato da poteri diversi che si controllano e si equilibrano a vicenda, può far prevalere interessi molto generali e dispersi, e bloccare i tentativi di privilegiati di intercettare le risorse destinate alla produzione di beni pubblici o di distorcere le regole. Se i liberisti pensano di far passare queste riforme riducendo ulteriormente la democrazia, s’illudono.

La crisi economica – è vero –  rappresenta un’occasione per deviare il corso della Storia: ma in quale direzione? Nel 1933 Roosevelt guidò l’America verso il New Deal e lo Stato sociale; Hitler portò la Germania alla reazione iper-nazionalista. E molte ‘svolte politiche’ e ‘rivoluzioni’ (pacifiche o meno), condotte nel nome della libertà ma realizzate da un gruppo ristretto, hanno prodotto regimi altrettanto illiberali di quelli abbattuti. Quando nuovi leader arrivano al vertice di istituzioni ‘estrattive’, perdono ogni interesse a modificarle. Famoso il caso degli ufficiali marxisti che nel 1974 rovesciarono l’imperatore etiope, poi uno di loro, Menghistu, s’insediò nel palazzo imperiale e governò come un Ras. Le istituzioni hanno molta inerzia…

La Costituzione italiana nacque invece da un dramma profondo e generale. Gli Uomini che presero il potere nel 1945 erano l’espressione di un vasto coinvolgimento collettivo. Perciò avevano un solo obiettivo: limitare il potere, e conservarlo sottomesso al controllo popolare. La Costituzione del ’48 fu la base del boom economico; la politica promuoveva interessi molto ampi. Da allora, la Costituzione è stata sempre più calpestata; nell’ultimo ventennio la ‘casta’ si è consolidata; e l’economia ha preso a stagnare. Nel 2008 è arrivata la crisi: quando i tecnocrati europei (e i loro terminali politici) hanno fallito, gli elettori – nonostante lo volessero – non sono riusciti quasi per niente a sostituirli. Ecco perché democrazie funzionanti sono essenziali per la crescita! In Marzo, per qualche settimana il sistema politico italiano è sembrato in bilico: Rodotà avrebbe favorito un’apertura? Poi la Storia ha preso un’altra direzione. La Costituzione è ora apertamente il bersaglio delle larghe intese, perché è l’ultimo argine alla concentrazione del potere.

Sembra che i cittadini abbiano perso. Tutta l’Italia è occupata dalla casta. Tutta? No! Un villaggio di irriducibili patrioti resiste ancora e sempre all’invasore. Uno di questi è Fabrizio Barca, che ha elaborato una proposta seria per affrontare il declino partendo dall’Art.49 Cost. (impone la democrazia nei partiti, ma è inattuato). Rendere il Pd un partito partecipato, contendibile, democratico, cambierebbe anche gli altri partiti. La proposta di Barca è ponderosa e prolissa, ma è anche profonda, capace di incidere sugli incentivi del sistema politico. Alcune idee forza:

  • La P.A. e i politici non hanno in sé le conoscenze per governare una società complessa ed avanzata. Occorre un metodo di governo che utilizzi i saperi diffusi nella società.
  • Se funzionari esperti della P.A. scandagliassero le soluzioni proposte da università, think-thank, Ong, per proporre opzioni di alto livello ai governanti? I politici continuerebbero a malgovernare (a fare i propri interessi), a meno di una forte spinta politica dei cittadini.
  • Occorre un partito ‘dei cittadini’, controparte dei governanti. Perciò bisogna separare gli incarichi nel partito, nelle assemblee elettive, negli organi esecutivi.
  • Abolire il finanziamento pubblico obbliga a puntare sul finanziamento dal basso, e a conquistarsi la partecipazione con una vera democrazia interna.

Ammiccano intanto venditori di fumo, pifferai, piacioni, rampanti. Meditate, gente, meditate.

 

La ‘Quasi moneta’ può salvare l’economia italiana

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Nel porre al centro dell’attenzione il tema della ripresa dell’economia e della lotta contro la disoccupazione, il governo Letta ha fatto, con cautela e senza enfasi, una correzione di rotta rispetto all’impostazione del governo Monti. Era, a nostro avviso, la sola cosa sensata da fare, visti gli esiti disastrosi di quella politica. La concentrazione ossessiva sul riequilibrio immediato dei conti pubblici è costata due anni di caduta del reddito nazionale e dell’occupazione, e non ha neppure raggiunto gli obiettivi di finanza pubblica: il deficit, che doveva azzerarsi nel 2013, è al 3% del Pil; il rapporto debito/Pil, che doveva collocarsi al 118% ed essere in discesa, è al 130% ed è tuttora in crescita.

In coerenza con questa nuova impostazione, il governo ha dato un modesto contributo al sostegno della domanda, rinviando gli aggravi fiscali preannunciati e avviando la liquidazione dei debiti pregressi della Pubblica Amministrazione. Queste decisioni, insieme al segnale netto venuto dalle elezioni avverso all’austerità, stanno probabilmente contribuendo a stabilizzare le aspettative e quindi a frenare la caduta dei consumi e del Pil.

Sentiamo dire che questi provvedimenti stanno portando l’Italia fuori dalla crisi. Il governo prevede per il 2014-16 una crescita di poco superiore all’1% in media d’anno. Seppure questa previsione fosse esatta, si tratterebbe di un recupero modestissimo rispetto ai passi indietro compiuti negli ultimi sei anni, durante i quali: il reddito nazionale si è ridotto del 9%; la produzione industriale è diminuita del 20%; e il tasso di disoccupazione è raddoppiato dal 6,1% al 12,2%. Bisogna ora stabilizzare le banche, il rapporto debito/Pil, ed evitare che il calo congiunturale si traduca in una flessione definitiva del reddito potenziale. Per questi motivi, per l’Italia è indispensabile assicurarsi rapidamente un tasso di crescita del reddito nazionale dell’ordine del 3-4% l’anno: un obiettivo realistico, non dissimile dai ritmi di sviluppo che attualmente si registrano in Giappone, dove un cambiamento della politica economica ha fatto decollare un’economia stagnante da oltre vent’anni.

Vi è ormai un’evidenza schiacciante che la crisi iniziata nel 2011 è stata provocata dalla scelta europea di comprimere la domanda – si veda De Grauwe e Ji, Panic driven austerity in the Eurozone - e non dall’alto livello del debito pubblico, o dai problemi dell’offerta. Lo dimostrano l’enorme output-gap che si è aperto in molti paesi Europei, le previsioni sistematicamente e grossolanamente errate, il successo di tutti gli altri paesi del mondo che hanno rifiutato di seguire l’Europa nel suo fatale esperimento di supply side economics. Eppure, il buon senso stenta a farsi strada.

Il Presidente del Consiglio ha usato parole forti contro il rigore imposto dall’Europa: in coerenza con queste affermazioni, egli deve esporre con chiarezza le esigenze dell’Italia. Se l’Italia vuole sostenere una ripresa consistente del reddito nazionale, dovrà alzare per almeno due anni il deficit pubblico al 5%, agendo sulle poste del bilancio che hanno il massimo impatto sull’attività economica. L’Europa dovrà riconoscere la necessità di tale politica. La Bce dovrebbe contribuire alla realizzazione di questo programma garantendo una discesa dello spread sotto i 100 punti base. Quest’obiettivo è assolutamente alla portata della Bce: persino in Giappone, dove la situazione fiscale è assai più drammatica – il debito è al 240% e il deficit è al 10,3% del Pil – la banca centrale tiene i tassi sotto i livelli tedeschi.

Se, come si è visto, l’austerità ha aggravato il problema del debito pubblico, una manovra espansiva – dato l’attuale valore dei moltiplicatori fiscali – ha alte probabilità (come ha spiegato il prof. Realfonzo su queste colonne  il 13 giugno scorso – ndr Il Sole 24 Ore) di ripagarsi da sé nel giro di 15-20 mesi, e di contribuire alla riduzione del rapporto Debito/Pil; a maggior ragione se la manovra fosse condivisa da altre nazioni europee, e finanziata a tassi d’interesse bassi. Per questo motivo noi non riteniamo necessario, per provocare un nuovo calo degli spread, che vi sia un accordo nell’ambito delle OMT fra Italia e EFSF. Ma non saremmo contrari a questo accordo, se fosse chiaro che esso è funzionale a un deficit pubblico ben al di sopra del 3%, per il tempo necessario a consolidare la ripresa. Un grande paese come l’Italia, fondatore dell’Unione Europea, può e deve chiedere ai suoi partners un rovesciamento della filosofia europea di fronte alla crisi.

Siamo convinti che, di fronte a una posizione ferma, motivata, del Governo italiano, dopo le elezioni tedesche l’Europa non potrà continuare a ignorare le lezioni di questi anni. Ma se così non fosse, come abbiamo scritto altre volte su questo giornale ((ndr Il Sole 24 Ore), l’Italia dovrebbe essere pronta a fare da sé. Con ciò intendiamo dire che l’Italia dovrebbe procedere alla creazione di liquidità interna mediante una emissione di quasi-moneta con la quale rianimare la crescita. Pensiamo a circa 25-30 mld l’anno di spesa pubblica e minori tasse – per un massimo di 100-150 mld, con un piano di rientro condizionato – finanziati tramite ‘titoli pubblici’ di piccolo taglio (scadenza 2150, tassi prossimi a zero) ad ampia circolazione in quanto utilizzabili per pagare tasse, bollette, ecc., emessi a fronte di pagamenti della P.A. Tanto più forte lo stimolo alla domanda interna, tanto più rapidamente sarà possibile recuperare competitività – con adeguate politiche dei redditi – senza deprimere l’economia.

Apprezziamo le parole del Presidente del Consiglio, ma temiamo che, pur di evitare una battaglia molto difficile in Europa, si possa essere indotti a sopravvalutare i recenti segnali di rallentamento della crisi. In realtà, se l’Italia non riuscirà ad innestare una marcia in più, nonostante l’instabilità politica interna, la situazione sociale del paese è destinata ad aggravarsi. I politici che hanno una visione liberale della società e dell’economia non possono ignorare la domanda di profonda svolta nella politica economica emersa nelle ultime elezioni e che sale dal paese; altrimenti gli elettori non potranno che cercare delle alternative. Il governo ha davanti a sé una piccola finestra di opportunità. Bisogna agire prima che essa si richiuda.

P.S. Ho tenuto nel cassetto l’idea per oltre due anni, perché meglio prepararla – con la Spagna, con le parti sociali -senza annunciarla. Ma poiché i politici volano basso, tanto vale proporla alla pubblica opinione. L’articolo è uscito in versione ridotta sul Sole 24 Ore di oggi.

Il governo affronti il nodo della competitività del Paese

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Il Governo del ‘Non Fare’ inizialmente non mi era dispiaciuto. Sempre meglio del Governo del ‘Fare Danni’. La stessa cosa, per inciso, ha pensato Paul Krugman, notando che l’Olanda – il cui governo esemplare ha fatto con diligenza tutti i ‘compiti a casa’ prescritti dall’Europa – è entrata in crisi; e il Belgio – politicamente paralizzato dalle divisioni interne – se la sta cavando meglio assai.

Ma adesso la mancanza di una seppur vaga strategia macroeconomica – che vada oltre il mero: “speriamo che l’Europa si riprenda, e ci tiri fuori pure a noi” – comincia a pesare sulle prospettive italiane. Abbiamo azzerato il deficit commerciale riducendo del 9% del reddito nazionale, il che ha comportato un crollo delle importazioni. Ma non abbiamo recuperato quasi per nulla in competitività.

 

Fonte: Elaborazioni su dati REER-36 di Eurostat

Perciò – anche ne fossimo capaci – ‘non possiamo’ riprendere a crescere, pena l’apertura di una nuova voragine dei conti con l’estero, con tutto quel che ne segue – nel contesto europeo – in termini di instabilità.

In prospettiva, ci sono quattro possibilità: 

- Andiamo avanti a ‘crescita zero’ per dieci anni e più 

- Usciamo dall’Euro

- Convinciamo la Germania ad alzare i prezzi e i salari

- Riduciamo i nostri salari e prezzi

Servono a poco, invece, nel breve e medio termine, le riforme strutturali – whatever that means: esplicano i loro effetti troppo lentamente. Inoltre, inseguono un target mobile (che succede se anche gli altri fanno le riforme strutturali, se guadagnano competitività più in fretta di noi?) che potrebbe non essere mai raggiunto. Ciò detto, qualche liberalizzazione non guasterebbe.

In pratica, finché stiamo nell’euro, e finché non sappiamo indurre la Germania a più miti consigli, se vogliamo uscire da una condizione di depressione permanente, ci tocca deflazionare i prezzi e i salari. Ma una politica del genere adesso deprimerebbe vieppiù le vendite delle imprese e l’occupazione. (E aumenterebbe il valore reale dei debiti). Perciò occorre affiancarle una seconda manovra – compensativa – che, aumentando l’occupazione, mantenga la domanda di beni e servizi a livelli accettabili. Ma come farla? Io una idea l’ho offerta; darebbe anche delle buone carte per farsi rispettare in Europa (strategia 3) ed ottenere che l’onere del riassorbimento dei divari di competitività sia condiviso.

Insomma, se si vuole restare nell’Euro, e non si è capaci di presentare all’Europa una proposta coraggiosa di riforma complessiva dell’Eurozona, neanche in vista della Presidenza Italiana, almeno si avvii una modesta strategia domestica.

Io sono fra quelli che non credono ai ricatti di Berlusconi: senza il governo, può solo peggiorare la sua situazione; vedremo. Intanto, finché c’è, pur immerso in un clima da fine impero, il governo gode in Parlamento di una maggioranza bulgara. Il premier avrebbe l’occasione della vita per dimostrare di avere leadership, di saper guardare agli interessi del paese, incidere in una congiuntura economica drammatica. Invece di complottare contro la Costituzione, e progettare l’introduzione di un regime Peronista in Italia; invece di galleggiare, sperando di durare ‘altri due anni’: potrebbe per favore, finché c’è, delineare una qualche via d’uscita dalla crisi? 

 

Se cade il governo, Napolitano si dimetta

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Che interesse ha Berlusconi a far cadere il Governo? Voglio dire razionalmente, a parte l’istinto, che lo porta a chiedere una prova di fedeltà ai suoi, a ricompattarli intorno a sé. Nuove elezioni, Berlusconi può perderle oppure vincerle. Ma anche nel migliore (per lui) dei casi, il ‘premio di maggioranza offertogli dall’amato (da lui) ‘Porcellum’ non gli consentirebbe di governare da solo: dovrebbe tornare al governo con il Pd, cioè alla situazione attuale.

Il senso della manovra di Berlusconi si capisce solo con riferimento all’elezione del nuovo capo dello Stato. La conquista del premio di maggioranza consegnerebbe al Pdl la scelta del nuovo Presidente della Repubblica. Dopo le elezioni, Berlusconi attenderà una defaillance del molto anziano Napolitano, o meglio chiederà le sue dimissioni ‘in sintonia con la nuova realtà del paese’. Peraltro, lo stesso Napolitano ha annunciato lo scorso aprile che non sarebbe restato fino alla fine del suo secondo mandato.

La conquista della Presidenza della Repubblica è importante per il Pdl sia per i poteri diretti del Presidente (ad es. il potere di grazia), sia per i poteri di indirizzo. Il Pdl, dopo aver contribuito per vent’anni, più di altri, ad erodere la Costituzione (perché una democrazia si difende: non è facile abbatterla subito), ora si prepara apertamente a dare spallate poderose al Patto Sociale fondamentale fra gli italiani, da cui dovrebbero discendere tutte le regole subordinate. In particolare, il Pdl mira ad introdurre il ‘Presidenzialismo’ ma senza i contrappesi democratici della Francia o degli Usa: si chiama ‘Peronismo’. Un premier/presidente eletto direttamente dal popolo si attribuirebbe tutti i poteri; e in primo luogo ‘riformerebbe’ la Corte Costituzionale, creando al suo interno una propria maggioranza, e la magistratura tutta, svincolando il proprio potere da ogni controllo e da ogni argine.

Il potere (esecutivo), privo dei vincoli e dei controlli tipici di ogni democrazia liberale e moderna, verrebbe usato, a parole nell’interesse del ‘popolo’ (di cui il Presidente sarebbe l’unico interprete), in realtà per aumentare lo sfruttamento del paese, da parte della (casta) classe politica, grazie al collaudato modello Protezione Civile nell’era berlusconiana. È urgente, bisogna fare presto, non c’è tempo per i controlli… e via derubando. Per chi proprio non vorrà capire, è pronto il modello Bolzaneto. Gli utili idioti che si annidano nel mio partito non potrebbero protestare alcunché, dato che proprio oggi hanno approvato il Comitato dei 40 per fare, con procedura diversa da quella prevista dalla Costituzione, la riforma della Costituzione! Il declino economico aumenterebbe: avremmo perso, assieme alla libertà e alla dignità, anche il benessere.

Né varrebbero gli ancoraggi Europei: non hanno fermato la svolta autoritaria in Ungheria… Inoltre, l’Euro, così com’è non è più sostenibile, non ha futuro. Il Pdl approfitterà senza farsi pregare del vuoto di leadership sulla crisi economica inopinatamente lasciato dagli utili idioti.

Come contrastare questo disegno? L’unico modo è che Napolitano si dimetta non appena il governo Letta cade. Costringendo questo Parlamento (a maggioranza Pd-M5S), non il prossimo, a eleggere un Capo dello Stato, Il nuovo ‘arbitro’ della politica italiana sarà così, per altri sette anni, di sicura fede democratica. Né sarà possibile votare prima: ci vuole un Presidente della Repubblica nel pieno delle sue funzioni per sciogliere le Camere.

 

Costituzione: Letta, conservatore sarà Lei!

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Cambiare una Costituzione è un atto straordinario, soprattutto nel caso delle Costituzioni ‘rigide’. Negli Stati Uniti si emenda forse ogni vent’anni, con maggioranze di due terzi dei Parlamentari, ma su un unico punto, dibattuto per anni in tutto il paese; la si cambia per iniziativa di movimenti popolari che emergono dal basso, per aumentare i diritti della gente. Oppure le Costituzioni si cambiano in seguito a una rivoluzione, in seguito a un grande sommovimento di popolo, per (ri)stabilire le forme di un vero pluralismo, di un accesso vasto ed efficace al potere politico.

Dove si cambiano spesso le Costituzioni, è I’America Latina. I politici mirano a una diversa forma dello Stato e di equilibrio fra i poteri. S’adattano, le Costituzioni, alle esigenze del caudillo di turno, e dei suoi cortigiani. Anche voi politici italioti, avete le vostre esigenze: perpetuare il vostro potere politico; aumentare il vostro potere economico; estrarre risorse da un paese prostrato e declinante, grazie ai lauti stipendi che vi assegnate, ai posti della pubblica amministrazione riservati ai vostri amici, al credito distribuito a chi vi compiace, alle regole che vi costruite su misura.

Il bicameralismo è un bersaglio facile della vostra propaganda: “fare in fretta!” Ma fare cosa? Certo, la fine del bicameralismo non ucciderà la nostra ostinata semi-democrazia. Certo, qualcosa bisogna cambiare… Ma è la direzione del cambiamento che non mi piace. Perciò difendo il bicameralismo. Quale legislazione nell’interesse del paese, cui voi tenevate, è stata bloccata di recente dal bicameralismo? Il problema delle vostre leggi non è che non passano: anzi, ne fate pure troppe! Il problema è che non tengono abbastanza in conto l’interesse generale. Le Costituzioni sono scritte apposta per rallentare la produzione di leggi: con la vostra logica la democrazia liberale moderna dovrebbe scomparire. Ma se ci fosse veramente fretta? Ci sono i Decreti Legge. Di cui abusate allegramente.

Il bicameralismo è un freno ai vostri colpi di mano in Parlamento. Se un gruppo di parlamentari, magari foraggiato da una lobby, fa passare una legge contro l’interesse pubblico, la gente viene a saperlo nel corso della prima lettura, e può mobilitarsi in occasione della seconda lettura. Una volta si chiamava ‘diritto di petizione’; ed ha sempre avuto un grande ruolo nel favorire l’apertura dei sistemi politici e sociali: a cominciare dall’Inghilterra del 1700. Il bicameralismo serve alla trasparenza.

Le Costituzioni sono fatte apposta per diluire il vostro potere, spezzettandolo fra una pluralità di ‘poteri dello Stato’. Ma voi, parlamentari auto-nominati, volete cambiare un terzo della Costituzione, anche se il popolo vi ha già detto di no! Procedete a tappe forzate, con una procedura che vi siete votati, contraria alla Costituzione scritta da eletti e approvata direttamente dal popolo. Il vostro popolo soffre per mille problemi, ma voi avete altro per la testa: volete convincerci che dando più potere alla casta, liberandola dei lacci e dei lacciuoli che ne limitano il potere, dalla trasparenza, dal controllo dei cittadini, potrete fare meglio i nostri interessi. Ma da che mondo è mondo, chi ha il potere lo usa nel proprio interesse! Il merito della democrazia è di far coincidere il più possibile l’interesse dei potenti con quello dei cittadini, dando ai secondi la possibilità di vigilare, e di rimuovervi. Ma voi fate di tutto per sottrarvi a questi vincoli.

La Costituzione si può cambiare? Certo. Ma prima l’opinione pubblica vuole una legge elettorale che dia la reale possibilità di selezionare noi donne e uomini che da una vita si battono per i diritti della gente, o che nelle università e in azienda hanno sviluppato conoscenze e soluzioni innovative per i nostri problemi. Vuole che questa legge sia corredata da meccanismi (informazione, tetti alle spese nelle campagne elettorali, decadenza degli incumbent in caso di violazioni gravi, stop ai conflitti d’interesse) che facilitino l’emersione di facce nuove: l’opposto di quel che volete voi. La Costituzione si può cambiare, ma prima l’opinione pubblica vuole che sia attuata nelle numerose parti che non avete attuato. Non solo i diritti socio-economici programmatici, ma anche i diritti democratici che vi stanno di traverso. Come l’art. 49, sul diritto alla partecipazione alle attività dei partiti con metodo democratico.

Poi si può cambiare la Costituzione. Ma per aggiornarla, modernizzarla, applicarne i princìpi, non stravolgerla. Per esempio? Non so… il pluralismo TV? La Tv non c’era nel 1948, e sembra che la Costituzione così com’è non basta! Oppure: le Autorità Garanti, vogliamo spoliticizzarle? Neanche loro c’erano nel 1948, e soffrono, tanto, a causa vostra, perché le trattate come una vostra riserva di caccia. Oppure… la Pubblica Amministrazione. Quella c’era nel 1948, ma dell’art. 97 “Nella pubblica amministrazione si entra per concorso…” ve ne fate beffe, a causa della postilla “salvo i casi previsti dalla legge”. Dovevano essere casi eccezionali: le vostre leggi hanno vanificato l’Art. 97; vorrei modificarlo per ripristinarlo. Ecc. (Commenti: quali parti della Cost. vorreste fossero attuate?)

Voi che rotolate come foste mondi / sul mondo come fosse tappeto per Voi…”, noi lotteremo per i nostri diritti.

Non vogliamo la riforma della P2 – Firma l’appello del Fatto Quotidiano

 


Il Congresso Pd e quell’Italia non rappresentata

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Oggi scade il termine per la presentazione delle candidature a Segretario Nazionale del Pd. Se non ci saranno sorprese, saranno 4 i candidati: Civati, Cuperlo, Renzi, e Pittella. I primi tre passeranno al secondo turno e saranno ammessi alle primarie dell’8 Dicembre. Per cosa si battono? Chi rappresentano?

Alle elezioni generali dello scorso Febbraio gli elettori – inclusi quelli del Pd – chiesero l’abbandono delle politiche di austerità e una profonda svolta della politica economica. Così funziona la democrazia: gli elettori non sono tecnocrati né economisti, ma capiscono benissimo quando le cose vanno male. Per esempio, gli americani nel 2008 capirono che la ricetta economica dei repubblicani non portava loro nulla di buono, ed elessero Obama; nel 2012 le cose andavano meglio, e riconfermarono Obama. La democrazia è un sistema rozzo per arrivare al buon governo?

Il Pd, come l’Spd in Germania, negli ultimi anni è stato in Italia il guardiano dell’ortodossia economica. Se vogliamo tradurre la richiesta del Febbraio 2013 degli elettori italiani in termini un poco più tecnici, possiamo riassumerla in due punti:

  • abbandonare il paradigma neoliberista europeo, e proporre all’Europa un chiaro progetto alternativo (keynesiano);

  • nel mentre che si negozia, adottare in Italia politiche di stimolo alla domanda aggregata. Con due possibilità. (a) Ricomposizione del bilancio pubblico verso le poste ad alto moltiplicatore fiscale. (b) Alzare il deficit pubblico in violazione temporanea dei Trattati Ue (come fanno 13 paesi europei su 17); con l’obiettivo di fare non più, bensì meno, debito pubblico.

Dietro alle divergenze economiche ci sono priorità politiche diverse. Le strategie liberiste hanno come priorità quella di aumentare lo sfruttamento la produttività di chi lavora; quelle keynesiane hanno come priorità quella di ridurre la disoccupazione: perciò sono da sempre un discrimine fra destra e sinistra. Come rispondono i tre candidati a questa richiesta degli elettori di riscoprire le radici popolari, social-democratiche (Roosevelt) del Pd? Renzi promette di aggravare la vena liberista Monti-Letta-Saccomanni; Da Cuperlo e Civati solo silenzio.

Oggi alle 15 a Piazza del Popolo in Roma un ex Presidente della Corte Costituzionale guiderà una manifestazione in difesa della Costituzione. Che è la Carta dei diritti dei cittadini nei confronti della classe politica. Questa Carta è il prodotto delle tre culture più importanti del paese – cattolica, socialista, e liberale – che hanno dato vita al Pd. Tutta la Carta ha lo scopo di sottomettere i politici al controllo e alla volontà dei cittadini, e di vincolarli alla promozione di interessi generali. Ma la Carta è inattuata in parti essenziali (dopo 55 anni!); e viene pesantemente violata. I politici hanno preso il sopravvento sui cittadini, garantendosi abnormi privilegi. La politicizzazione dello Stato ha consentito di gestire le risorse pubbliche e regolamentare il capitalismo in funzione di interessi economici particolari e dell’autoconservazione del potere politico. Qui ha origine il declino generale del paese. Allora che si fa?

Nel ventennio berlusconiano abbiamo assistito a una costante pressione contro la Costituzione, in nome di un’idea ad essa alternativa: che cioè il malgoverno nasce non dalla malafede dei politici, dai conflitti d’interessi, bensì dalla loro impotenza. O perché ignoranti: allora occorre affidare il governo a una tecnocrazia. O perché privi di sufficiente potere per ‘fare’: meno poteri alternativi bilanciano, controllano, limitano il potere esecutivo, meglio è! Perciò, non riuscendo a cambiare la Costituzione, hanno allargato smisuratamente il mandato della Protezione Civile: col bollino dell’emergenza, tutto si può fare, in fretta! L’ideale: la monarchia! Zero ‘lacci e lacciuoli’! Monarchia elettiva, certo: ma la democrazia è solo elezioni?

Vogliono convincerci che – poiché il mondo moderno viaggia in tempo reale -, non possiamo più permetterci le Costituzioni liberali. Idea antica. E così, dai ‘treni in orario’ di Mussolini, al ‘Governo del fare’ di Berlusconi, siamo arrivati al ‘Decreto del Fare’ di Letta. Forse B. è finito, ma il veleno del Berlusconismo ha attecchito ovunque. Perciò, come nel 2006, con qualche sapiente foglia di fico (abolizione province, riduzione numero parlamentari), preparano una svolta Peronista, che chiamano Presidenzialismo. Uno eletto direttamente dal popolo può fare ciò che vuole senza troppi intralci: inganno tipicamente sudamericano, che non ha niente a che vedere con gli Usa. Perché una impresa deve poter aprire in un giorno, ma le regole del gioco – le leggi – vanno cambiate con cautela, ponderazione, dibattito, controllo pubblico. La Protezione Civile berlusconiana sappiamo tutti come è finita: in questi giorni la ‘cricca’ va a processo. Quanto a Letta e Colaninno, che salvano per l’ennesima volta l’Alitalia con i nostri soldi… hey, è tutto legale!, avete un problema?

La Costituzione e il suo stravolgimento sono due progetti di trasformazione del paese fortemente alternativi. Come il progetto neokeynesiano e quello neoliberista di fronte alla crisi. Ma in piazza, ad opporsi allo stravolgimento della Costituzione, ed anzi a battersi per la sua piena attuazione ed applicazione non ci sarà il Pd, bensì un ex Presidente della Corte Costituzionale. A chiedere una svolta delle politiche economiche ci sarà un sindacalista. E i cittadini disarmati. Il Pd, oggi, sta dall’altra parte: dalla parte opposta a quella dei suoi valori e delle sue migliori tradizioni.

Questa è l’Italia non rappresentata: moderata e normale. Che vuole un paese unito intorno alla sua Costituzione, un sistema politico che risponde alla volontà popolare, una politica economica che risolve i problemi economici più impellenti della gente.

P.S. Se qualche candidato Pd vuole replicare a questo articolo, mi scriva a staffgawronski@gmail.com e sarò lietissimo di pubblicare la replica.

Obama, Merkel, l’Eurozona, e i silenzi di Letta

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Il rapporto del Tesoro Americano uscito mercoledì non dà scampo alla Germania: è lo ‘stato canaglia’ dell’economia globale. Da quando è scoppiata la crisi, ha usato i surplus commerciali per crescere a scapito degli altri: soprattutto delle altre nazioni dell’Eurozona.

Il meccanismo l’ho spiegato tante volte. Il surplus della Germania spinge altri paesi in deficit. In tempi normali il deficit commerciale non è depressivo, perché ha come corrispettivo contabile un afflusso di capitali; il quale – attraverso il credito bancario ed altri canali – stimola consumi e investimenti domestici. Ma quando c’è recessione questo meccanismo ‘compensativo’ si blocca: il cavallo non beve. Rimane solo l’effetto depressivo. Gli inglesi le chiamano politiche beggar thy neighbourfrega il tuo vicino (e cresci a sue spese).

Quando però si condivide una moneta, non c’è solo l’effetto bilaterale diretto. Lucrezia Reichlin scrive sul Corriere: “Appena la situazione comincia a migliorare la nostra moneta si apprezza”. Ovvio. Il surplus commerciale dell’Eurozona quest’anno sarà pari al 2,5% (Germania: 6,3%) del Pil! Il cambio si apprezza naturalmente per compensare gli squilibri commerciali fra aree valutarie. (Contribuisce la BCE, più restrittiva di altre). Ma un euro forte ci crea problemi di competitività su tutti i mercati del mondo. Bloccando sul nascere ogni possibilità di ripresa: da noi come in Spagna, in Francia, e altrove.

Sei milioni di italiani  (26 m. di Europei) che vogliono lavorare e non ci riescono: 6 milioni di sogni infranti. Quello che mi fa veramente piangere di rabbia è che sia Obama a prendere le nostre difese. Obama! Mai un Primo Ministro italiano – il diretto interessato per eccellenza, in quanto Capo del Governo del maggiore dei paesi europei in crisi – si è permesso di dire questa verità. E i tedeschi? Furiosi con Obama. Ma è una pantomima. Li ho incontrati a Krinica Gora, ‘la Davos dell’Est’, qualche settimana fa. Ridevano. A malapena celavano il loro pensiero: ‘Se non vi difendete da soli, perché dovremmo farlo noi?’ Si percepiva un’inquietudine di fondo: la paura di stravincere, delle reazioni dei popoli europei. Ma questa non è la versione ufficiale. Non è neppure la versione ufficiale dei liberisti.

La versione ufficiale della Germania è che i loro guadagni di competitività sono dovuti alla virtù dei tedeschi, alla maggiore efficienza e produttività, alla bontà del loro modello, alla loro superiore civiltà. (Specularmente, la crisi è colpa della nostra corruzione, inefficienza… e via giaculando). In ‘Lezioni tedesche’ ho già ricordato i precedenti storici di queste versioni ufficiali. Analizzandole meglio, esse si compongono di tre parti:

  1. Il guadagno di competitività sugli altri paesi europei fatto registrare dalla Germania dal 1999 in poi è dovuto ai superiori guadagni di produttività della Germania, ottenuti grazie alle riforme strutturali.

  2. Quindi il surplus commerciale tedesco è legittimo. In ogni caso la Germania non può farne a meno, pena il rallentamento della sua crescita.

  3. Se gli altri paesi vogliono tornare a crescere, non hanno che da imitare la Germania.

In realtà,

  1. Il grafico qui sotto scompone, grazie ai dati dell’OCSE, i guadagni di competitività (il calo del CLUP) della Germania rispetto a 6 paesi europei, nelle due componenti: produttività e salari. Come si vede, i guadagni di produttività relativi sono minimi; il grosso è dovuto alla dinamica salariale deflattiva. Perciò il riequilibrio da fare è quello dei prezzi e salari. Bloccarlo con politiche monetarie e fiscali restrittive (austerità) è inaccettabile.

 

  

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    2. In ogni caso, il surplus commerciale tedesco è illegittimo (accordi G20), devastante perciò immorale. La Germania potrebbe crescere come tutti i paesi del mondo avvalendosi della domanda interna.

  2. Se in PIIGSF la crescita della produttività accelerasse, non è detto che ciò determinerebbe un recupero di competitività sulla Germania. Perché nel frattempo la produttività tedesca non si ferma. Dunque non può essere questo il meccanismo di riequilibrio: non esiste al mondo. Anche perché trasformerebbe l’Eurozona in una micidiale macchina per sopprimere i diritti dei lavoratori. (Guarda caso…). In ogni caso, in Germania l’aritmetica è… un’opinione?! Non tutti i paesi possono avere simultaneamente un avanzo commerciale. E per recuperare competitività la Germania nel 2000-08 beneficiò di un’inflazione al 3-4% in PIIGSF, mentre oggi l’inflazione tedesca è all’1,4% e non ci lascia margini.

Finché sono i lettori meno esperti del FQ a scrivere che la crisi dipende dai nostri peccati sociali, passi. Ma i politici nostrani sono inescusabili.

Ed ora la buona notizia. C’è un candidato alle primarie del Pd che sta dicendo queste cose, e promette di dirle chiaramente in Europa. Si chiama Gianni Pittella, Vice Presidente del Parlamento Europeo: l’ho ‘scoperto’ l’altra sera a Porta a Porta, mi ha fatto un’ottima impressione. Ma ahimè gli italiani, nonostante i fallimenti di Berlusconi e Veltroni, continuano a innamorarsi dei politici piacioni snobbando quelli seri.

Ma questi leader italiani che vanno a Bruxelles atteggiandosi a ‘quelli che battono il pugno sul tavolo’… Che inganno!

P.S: Parole chiare sull’Euro ha scritto anche Martin Schulz su Repubblica: ma conclusioni e proposte deludono. Schulz è un leader socialdemocratico tedesco; aspira a guidare la Commissione Europea nel 2014. Prima di avere i nostri voti, è bene che diventi più concreto e conseguente. 

 

L’asfissia economica e la grande occasione di Letta

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I dati sul PIL appena usciti, la crisi annunciata dell’INPS (dopo Alitalia Telecom Finmeccanica ecc.), il nuovo record della disoccupazione e del debito pubblico, la forte deflazione dei prezzi alla produzione, descrivono uno scenario di graduale asfissia economica. La crisi dell’Eurozona sta portando alla disperazione decine di milioni di Europei: tra questi, sei milioni di italiani che vorrebbero lavorare ma non trovano lavoro. Si tratta di una crisi strutturale: perciò a politiche vigenti essa è destinata a trascinarsi a indefinitamente. Gli effetti di isteresi sull’offerta aggregata consolideranno definitivamente, nei prossimi anni, il crollo di civiltà in atto nei paesi Mediterranei. 

L’Euro venne varato senza che vi fossero le condizioni perché i paesi aderenti potessero condividere una moneta unica. I padri dell’Euro speravano che in corso d’opera opportune riforme istituzionali avrebbero creato tali condizioni. Ma tali riforme (ammesso che siano sufficienti) non sono mai state fatte. Anche dopo l’esplosione della crisi, l’Europa si è limitata ad adottare:

  • provvedimenti tampone;

  • misure minime, al limite della violazione dei Trattati Europei, strettamente necessarie per evitare il crollo dell’Euro, senza correggere i Trattati;

  • modifiche ai Trattati inadeguate e controproducenti.

Insomma, i progressi istituzionali sono stati deludenti.

La natura delle difficoltà a riformare l’Eurozona sono quattro. In primo luogo, i Trattati sono ‘rigidi’: basta il veto di un paese per impedirne la modifica. In secondo luogo, l’Euro crea delle asimmetrie, che – se danneggiano l’Eurozona nel suo complesso – favoriscono (almeno nel breve e medio termine) alcuni paesi: quelli che, come la Germania, grazie a una forte compressione dei salari e delle condizioni di lavoro riescono a produrre surplus commerciali intra-europei senza deprimere la domanda. Questo fatto incentiva tali paesi a mantenere lo status quo istituzionale; peggio ancora, a peggiorare l’assetto normativo dell’Eurozona grazie alla preminenza finanziaria acquisita: essa rende gli altri paesi vulnerabili e perciò sensibili a minacce ed incentivi, dunque all’influenza politica dei paesi in surplus. Perciò l’alleanza fra Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia, e Francia non è mai nata.

In terzo luogo, l’ideologia macro-liberista è molto forte in Europa: e porta a negare le analisi e le evidenze empiriche che smentiscono la bontà delle politiche, degli assetti istituzionali, e della filosofia di cui l’Eurozona è impregnata. Lo stesso premier Enrico Letta pubblicò un libello nel 1997 (“Euro sì. Morire per Maastricht”) in cui esibiva la sua fedeltà alla costruzione ideologica del Tratatto di Maatricht, più che all’Europa: quella classe dirigente è ancora lì. Infine, per ammissione degli stessi protagonisti, esiste più di un’Agenda nascosta, ma ormai non più tanto nascosta, che induce i policymakers europei ad utilizzare la crisi macroeconomica per imporre riforme microeconomiche, liberalizzazioni e riduzioni dello Stato sociale, o l’Unione Politica Europea. Non che la crisi sia stata provocata: ma non deve essere risolta se non facendo funzionare il meccanismo di flessibilizzazione dei prezzi (quindi dei salari) e di riduzione della spesa pubblica: sono questi i Valori Prioritari, rispetto ai quali la disoccupazione e il PIL diventano non solo secondari, ma strumentali.

La crisi in atto è dunque fondamentalmente politica. La Storia ci insegna come finiscono crisi di questo genere. Negli anni “30, un’intera classe dirigente di politici, banchieri centrali, diplomatici, funzionari, economisti, ecc., aveva legato il proprio cuore e il proprio destino al gold standard. Ma fu proprio l’abbandono del gold standard a consentire la fine della crisi. Eppure, l’establishment fino alla fine lottò per conservare il sistema aureo. L’Inghilterra fu espulsa (per sua fortuna) dai mercati, a causa dell’assenza di un lender of last resort internazionale; ma la BCE è stata costretta ad accettare, più o meno, questo ruolo nel Luglio 2012, il che ha escluso tale evenienza. In altri casi, fu necessaria la grande vittoria politica di un leader nuovo (Roosevelt, Hitler), determinato a mettere fine alla crisi, a costo di ‘provarle tutte’, anche sconvolgere gli equilibri esistenti. Tali vittorie politiche richiedono: disoccupazione di massa; e una democrazia che lasci qualche possibilità agli outsiders. L’establishment europeo sta cercando di impedire l’insorgere di tali condizioni: applicando un po’ di flessibilità al paradigma dominante; costituzionalizzandolo; e prevedendo penalità per chi dovesse abbandonare l’Eurozona (l’uscita dall’Euro è vietata).

Ora la Commissione, vista l’aria che tira, fa la voce grossa con la Germania. Ma si tratta sempre di un’ammoina: il limite per il surplus dei conti con l’estero è stato fissato a uno stratosferico 6% del PIL. La Germania viaggia fra il 6 e il 7% da alcuni anni. Ma un surplus tedesco al 5,9% non cambierà granché. Ora la BCE spiega che ha tutti gli strumenti a disposizione per evitare la deflazione: se necessario, interverrà. La BCE è come la Chiesa: non si discute. Tanto più se il papa è italiano. Ma la BCE agisce sui prezzi attraverso la domanda aggregata: i consumi delle famiglie soprattutto, la cui debolezza sta distruggendo le imprese, e a valle famiglie e Stati. Dunque la BCE dice che è perfettamente in grado di attenuare la depressione, ma non muoverà un dito a meno che l’inflazione non diventi negativa. Com’è possibile accettare una Banca Centrale i cui obiettivi politici sono così contrastanti con quelli della società?

I popoli del Sud d’Europa – in particolare i ceti più deboli – sono oggi ostaggio di disegni politici radicaleggianti delle élite – Stati Uniti d’Europa; riduzione dello Stato Sociale; flessibilità del mercato del lavoro, in codice ‘riforme strutturali’ – che bloccano le politiche espansive e le necessarie riforme istituzionali dell’Eurozona. Si avvicina la grande occasione del Semestre Europeo a Presidenza Italiana: è questa la migliore sede per proporre la svolta e la grande riforma dell’Euro. Che facciamo, ‘Palle d’Acciaio’: salviamo sto paese? 

 

Proposte economiche, inutile scrivere. Non c’è nessuno che ascolti

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È inutile scrivere sui giornali di economia. Non c’è nessuno che ascolta, al governo.

I politici non sono, mai e in nessun luogo, in grado di valutare proposte tecnicamente avanzate. Perciò chi governa una nazione evoluta – oggi come ieri – è la pubblica amministrazione. Diceva Max Weber: ‘Non c’è Stato senza burocrazia’. I politici arrivano a Roma con idee generiche, filosofiche. “Mettere il lavoro al centro!”; “Battere i pugni in Europa!”: due frasi tipiche di questi anni. Ma quando va in Europa persino ‘Leone Palle d’Acciaio’ bela. Come mai? Perché non ha una proposta da mettere sul tavolo. Perciò in Europa alzano le spalle e tirano dritto.

Su il Sole 24Ore, valenti economisti avanzano proposte complesse, intelligenti, creative, per por fine alla crisi. Con l’oro della Banca d’Italia; con bond garantiti da asset reali; con le poste di bilancio dai moltiplicatori più alti… fino alle proposte di riforma dell’Euro, e alle strategie macro complesse. Nessuna viene mai presa in considerazione. Perché? Uno dei motivi è che il governo non è in grado di ascoltare e di capire. Perciò si continua a discutere se l’Imu deve chiamarsi Tares o Tarsu…Le poche cose buone fatte dal Governo in carica sono il frutto di iniziative personali di qualche economista cooptato nel Governo.

Negli altri paesi, la P.A. è composta non da passacarte bensì essenzialmente, da tecnici. I quali hanno come obiettivo i problemi che il governo considera prioritari, e come missione di scandagliare le soluzioni suggerite dai think-tank, nelle Università, dagli esperti sui giornali e sul web, anche da semplici cittadini -, selezionando, approfondendo con gli autori o altri esperti, impacchettando le proposte in formati adatti ai politici, presentandole nei tempi e nelle sedi giuste, illustrando le alternative possibili e i costi e benefici di ciascuna. I politici al governo vengono dunque messi in condizione di fare scelte vere e informate.

Sulla crisi, “l’epicentro del conflitto – dice Fassina- è a Bruxelles“. Ma la crisi dell’Euro richiede una trattativa tecnico-politica a tutto campo, che deve essere gestita dal Presidente del Consiglio. Non può farlo il ministro dell’Economia: il quale però ha l’unica tecnostruttura economica governativa degna di questo nome (anche se allineata al paradigma neo-liberale). Gli altri paesi Ocse hanno intorno al Capo del Potere Esecutivo un nucleo tecnico di economisti (almeno venti, spesso molti di più) che lo assiste. L’Italia tentò di dotarsi di una simile Policy Unit nel 1999: si arrivò all’assunzione di 35 economisti. Ma nell’inverno 2000-2001, prima delle elezioni, Tremonti mise una condizione a Berlusconi: ‘niente contraltari a Palazzo Chigi’; la Policy Unit andava sciolta. La ‘finanza creativa’ non ammette verifiche neppure ‘interne’. Per lo stesso motivo Tremonti chiuse l’Isae (troppo indipendente); e mise pressione sull’Istat e alcuni funzionari italiani della Commissione Europea.

Tornata al governo, la sinistra segue logiche simili. La P.A. in Italia ormai è ‘nominata’, dai vertici in giù, dalla politica, e perciò con criteri politici. Il tecnico in grado di fare valutazioni indipendenti  – e che tende a resistere alla politicizzazione –  è malvisto, spesso ricattato o rimosso. Il mal governo comincia qui. La P.A. è un settore-chiave che la politica ha sottratto alla Costituzione: la quale prevede invece assunzioni basate sui concorsi pubblici, e carriere meritocratiche.

Il declino, anche in questo caso, coincide con le pulsioni maggioritarie e plebiscitarie; e ha un nome: spoil system. Questa modalità caratterizza i sistemi maggioritari e presidenziali: come in America. Solo che lì o in Francia i contrappesi democratici (quindi meritocratici) sono fortissimi. Da noi – come in certi paesi latinoamericani – la pulsione maggioritaria ha sfasciato la P.A. e le sue procedure, rendendo quasi ingovernabile il paese; in attesa che il Sindaco d’Italia assesti le mazzate finali.

Perciò, per l’imbelle passività dei politici di fronte alla crisi, non accuso loro, ma voi, che li votate, inseguendo il venditore di sogni di turno: che vuol cambiare tutto ma, per farlo, vi chiede più potere! A lui, alla casta. Vi ha detto che il problema non sono loro, che le leggi le svuotano, i controlli li aggirano, la Costituzione l’ignorano: ma la presenza di leggi, della democrazia, della Costituzione, che li rallenta. Berlusconi ha il copyright del populismo italiano; ma aveva solo aggirato la Costituzione, mettendo genialmente tutto dentro alla Protezione Civile (i dipendenti passati senza concorsi da 350 a 1300) dove, a causa dell’urgenza, nessuno controlla niente.

Ma direte voi: ‘Non è che il governo non sa…Non vuole ascoltare! Come certi economisti…”. Credete forse di salvarvi con questi argomenti? E invece a maggior ragione siete colpevoli perché, con questa storia dell’uomo solo al comando, pecore, volete dare ai politici poteri eccessivi, rinunciando ai vostri, alla vostra dignità, alla vostra libertà, alla vostra Costituzione… per un piatto di lenticchie.

Milleproroghe: uomini delle Istituzioni contro le Istituzioni

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La Costituzione consente al Governo d’aggirare il Parlamento e governare senza di esso, ma solo in casi eccezionali: con i Decreti, su singole questioni ben individuate, veramente ‘gravi ed urgenti’: calamità naturali, guerre, cigni neri, Smaug, ecc. Il Comune di Roma stava per fallire: il Governo ha ritenuto che fosse un fatto grave e urgente (dov’era fino a ieri?). E ha predisposto un Decreto Legge, detto ‘Salva Roma’. Poi ha pensato d’infilarci dentro di tutto: in barba alla Costituzione; che ormai la Casta non vede perché si dovrebbe rispettare. E lo ha intitolato ‘Misure finanziarie urgenti in favore di regioni ed enti locali ed interventi localizzati nel territorio’. È esclusa la Luna.

Una Costituzione. Un Decreto che l’abusa. Un Parlamento, saturato dall’attività di conversione in Legge dei Decreti governativi, in cerca di un ruolo. Come fare, se non infilandosi nelle Leggi di conversione dei Decreti Legge governativi? Ormai è prassi… (In Agosto, per esempio, erano riusciti ad infilare in un Decreto contro il femminicidio la questione – urgente e grave – dei fuochi d’artificio…). E così il Decreto ‘Milleproroghe’ si appesantisce; gli emendamenti fioccano. Con la regia del Governo. Che non si oppone, anzi: in Commissione dà ‘parere favorevole’ su quasi tutto. L’assalto alla diligenza procede velocemente, grazie ai tempi contingentati dai regolamenti Parlamentari, che consentono ormai al Parlamento italiano di approvare Leggi in tempi record.

Ma nel corso del passaggio dal Senato alla Camera, grazie al bicameralismo perfetto, qualcosa s’inceppa. L’opposizione alza la voce sugli affitti d’oro; qualcuno nota che non c’è più copertura finanziaria; altri ricordano che c’è in giro una certa aria di rivolta: la gente sta prendendo il brutto vizio di scendere in strada con la Costituzione in una mano e i forconi nell’altra. Persino Napolitano fa sapere che così non va. E allora il Governo, tutto teso a un solo obiettivo (chi indovina quale?), ritira il suo Decreto Legge in dirittura d’arrivo. Tanto, morto un Decreto, se ne fa un altro. Non una bella vicenda. Presidenza della Repubblica, Governo, e Senato giocano a scarica-barile; i giornali commentano con durezza. Ma è virtù dei ‘grandi’ trasformare i rischi in opportunità. Perciò Letta dichiara: “Tutta la vicenda ha reso evidente quanto in questo paese sia essenziale una riforma complessiva del procedimento legislativo”, a partire “dal bicameralismo perfetto”, a cui bisogna mettere mano “nel 2014”.

La vicenda del Milleproroghe ripete uno schema ormai collaudato. La Casta calpesta la Costituzione (le regole) per farsi gli affari suoi (o di chi assicura il suo potere). Quando fa una figuraccia, rovescia la frittata e dà la colpa alla Costituzione. La stampa non obietta; il distratto cittadino ci crede. Qual è l’obiettivo?

Buon Anno nuovo.

La disoccupazione di massa è una scelta politica?

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Questa è una sintesi dell’articolo “Serve un acceleratore della crescita” pubblicato oggi sul Sole 24 Ore.

Nel 2013 il mondo ha raggiunto nuovi vertici di benessere: + 8% la produzione industriale, + 11% il commercio mondiale rispetto al 2008 …Le banche centrali hanno collaborato allo stimolo fiscale garantendo tassi d’interesse prossimi a zero; stabilità dei titoli pubblici qualunque fosse il livello del debito e del deficit; finanziamenti diretti all’economia reale; acquisti sul mercato dei titoli pubblici e versamento degli interessi nelle casse del Tesoro.

Questi risultati mettono in luce, per contrasto, l’inaccettabile e gratuita performance dell’Eurozona: qui la produzione industriale e il PIL sono ancora inferiori del 15% e dell’1,6% rispetto al 2008; la crescita è minima, tutta importata dall’estero, non in grado di abbattere la disoccupazione (…) Se l’Europa – solo l’Europa – adotta un sistema monetario simile al gold standard, a cui aggiunge politiche del cambio, monetarie, e fiscali Hooveriane, non sorprende che le conseguenze siano simili a quelle degli anni ‘30.

Fra queste conseguenze, vi è anche l’isolata prosperità di un grande paese europeo che gode di un tasso di cambio sottovalutato. Il suo enorme surplus commerciale drena domanda dal resto del continente; i capitali affluiscono copiosi; (…) il bilancio è in pareggio senza austerità. Scambiando la buona sorte per virtù, impartisce lezioni ai vicini. “La nostra nazione merita l’ammirazione di tutti” – diceva nel ’32 il Presidente del Consiglio francese, Tardieu – per la sua “struttura economica armoniosa”, la “parsimonia” dei suoi abitanti, “la flessibilità del sistema economico”, la sua “modernità (…)”. La Francia (…) insegna che un paese in surplus non ha alcun incentivo a modificare la situazione. Così è per la Germania. Nel suo recente discorso al Bundestag, la Cancelliera ha ribadito che la deflazione è la strada obbligata per i paesi in deficit commerciale. Dunque, tagli ai salari e ai bilanci pubblici; aiuti, sotto pesanti condizioni, solo quando si fosse sull’orlo di una crisi sistemica. Ed in futuro, ‘contratti’ per imporre le riforme strutturali: le nazioni europee – ha osservato Carlo Clericetti – dopo aver rinunciato alla moneta e alla sovranità di bilancio, dovrebbero anche lasciare ad altri le decisioni su quali riforme fare e come; se non sono d’accordo, dice la Merkel, “li spingeremo” ad accettare (…)

La storia degli anni ‘30 offre un altro insegnamento: nonostante i pessimi risultati, le politiche deflazioniste non vennero mai abbandonate dalle élite democratiche del tempo, trincerate dietro il motto: “l’austerità non ha alternative!”. Solo i partiti anti-sistema o perfetti outsider come F.D.Roosevelt risposero al grido d’aiuto dei disoccupati. La crisi odierna è per certi versi ancora più complessa: l’Euro è più rigido del gold standard, non è così facile uscirne (…) Ma negli anni ‘30 non esisteva la teoria macroeconomica, oggi la scusa dell’ignoranza non vale più. O non dovrebbe valere. Eppure, in questi anni ci è stato detto, prima, che non c’era una crisi della domanda; poi, che l’insufficienza della domanda era reale, ma ‘di breve termine’; infine, si fa capire che la crisi è necessaria per imporre le riforme. La saldatura degli interessi della Germania, dei riformatori neoliberali, e degli eurocrati che puntano all’Unione Politica Europea sta prolungando la crisi. Il problema non è economico, è interamente politico.

Ha notato Paolo Savona sul Sole del 22 Dicembre che le ricette deflazioniste – sconfitte alla prova dei fatti – tuttavia hanno vinto sul piano politico. Ma questa ‘vittoria’ comporta alti prezzi politici: una deriva tecnocratico-autoritaria in Europa, e una forte riduzione dei consensi alle istituzioni democratiche nazionali. Perciò un compromesso dovrebbe essere nell’interesse anche dell’establishment, per favorire la vera pacificazione nazionale: quella fra chi non ha lavoro e chi governa. In Italia, si tende a cavalcare le pulsioni maggioritarie, peroniste, e anti-costituzionali nella speranza di contenere gli effetti del calo dei consensi. Ma la Corte Costituzionale ci ricorda che non si può favorire la governabilità a scapito della rappresentanza oltre un certo limite. Bisogna essere davvero miopi per non vedere la fragilità di questo disegno. Meglio sarebbe rappresentare gli interessi del corpo elettorale, e ritrovarne il consenso. Come fare?

Una strada c’è. La Confindustria prevede una crescita dello 0.7% quest’anno e dell’1,2% nel 2015. Sono cifre che non cambiano il quadro generale (…) La nostra proposta è questa. Stabiliamo un obiettivo di crescita del 2% nel 2014 e del 3% nel 2015. Supponendo che, in assenza di politica economica, gli andamenti siano quelli previsti dalla Confindustria, si tratta di aggiungere 1,3% di crescita nel 2014 e 1,8% nel 2015. A parità di politica monetaria e di tasso di cambio dell’euro, l’onere di una accelerazione della crescita ricade sul deficit pubblico. A sua volta la misura del deficit necessario dipende dai moltiplicatori fiscali. Recentemente i moltiplicatori in Italia sono stati pari a circa 1, ma quelli di alcune poste del bilancio – in particolare gli investimenti pubblici, gli acquisti di beni e servizi, i trasferimenti alle fasce in condizioni di povertà assoluta (come le spese sociali studiate dal sottosegretario Guerra per le famiglie più bisognose) – paiono avere valori pari o superiori a 2. 

Sarebbe dunque sufficiente uno stanziamento – rispetto alle cifre di finanza pubblica indicate nella Legge di Stabilità – dell’ordine dell’1% del PIL nel 2014 e del 0,6% nel 2015. L’impatto iniziale degli aumenti di spesa parrebbe portare il deficit dal 2,7% al 3,8% nel 2014 e dal 2,4% al 3% nel 2015. Ma già nel 2014 l’allargamento della base imponibile darebbe un maggiore gettito fiscale e risparmi di spesa, per 0,5% del PIL (deficit al 3,3%) e nel 2015 per 0,7% (deficit al 2,3%). Il rapporto debito/Pil nel 2017, grazie all’effetto sul denominatore, cioè sul PIL, sarebbe inferiore di 3,5 punti percentuali rispetto a quello che si avrebbe in assenza di tale manovra; e vi sarebbero quasi mezzo milione di disoccupati di meno. Inoltre questi scostamenti modesti, rispetto al vincolo del 3%, non farebbero scattare alcuna sanzione nei confronti dell’Italia.

Questo è il minimo che le classi dirigenti devono al paese. Se non lo si vuol fare, si ha il dovere di spiegare il perché.

PierGiorgio Gawronski
Giorgio La Malfa

 

Pete Seeger morto, onore al padre di tutti i cantautori

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Sei mesi dopo l’amata moglie Toshi è morto a 94 anni Pete Seeger, padre di tutti i cantautori, patrimonio dell’Umanità. Non è facile trasmettere alle giovani generazioni il valore morale, artistico, politico, e umano della sua vita, concepita come un dono per tutti noi. Molte sue registrazioni sono invecchiate e frusciano. Il suo sound, privo di effetti speciali, è superato… Ma per questo la sua musica era molto ‘democratica’ (tutti possono farla, basta un banjo o una chitarra). Alcuni anni fa, a una manifestazione a Roma per la democrazia in Birmania, osai intonare il classico “We shall overcome”, pensando che gli altri mi avrebbero seguito; invece fu grande silenzio. Erano tutti più giovani di me. Alla fine gentilmente mi chiesero di che cosa si trattasse: capii che nessuno di loro conosceva più la canzone di protesta più famosa degli anni ’60.

Ma non era solo protesta. Quella canzone esprimeva speranza, fiducia nella possibilità di conquistare insieme una vita migliore, un mondo migliore. Una fiducia fondata su solide basi: quelle del noi, della solidarietà (direbbe Brassens), dell’amicizia, dell’essere ‘insieme’. Perciò prima di cantare una canzone pacifista potenzialmente divisiva, (‘Bring them home’, ‘Riportate a casa i nostri ragazzi dal Viet-Nam’), Pete si rivolge gentilmente a chi ha idee diverse: “Questa non la dovete cantare insieme a me, se non siete d’accordo…”. L’amicizia, la pace oltre ogni differenza ideologica.  E generazionale: qui ricorda assieme al giovanissimo figlio Arlo Guthrie, il suo grande amico e coetaneo, Woody Guthrie, prematuramente scomparso, assieme al giovanissimo figlio Arlo Guthrie. Lo spiritual è trascinante, ma ‘Anche da voi, pubblico, dipende la riuscita di questo concerto. Avete una voce: potete decidere se usarla o meno… ’.

In questo personaggio sinistrorso, ambientalista, sospettato di marxismo, che si è battuto per la pace, per i diritti dei lavoratori, per le libertà, per i diritti umani, escluso dai circuiti televisivi del suo paese, negli anni “50 quasi fuorilegge, più che la Fede la Speranza in Dio era profonda. Questo è il testamento escatologico con cui incoraggia (min. 4ss) una giovane Joni Mitchell che, in Both Sides Now, lamenta una vita diversa da come l’aveva immaginata, sempre sconvolta da ‘nuvole’, in cui non trova l’Amore: “Daughter daughter don’t you know / you’re not the first to feel just so / but let me say before I go / it’s worth it anyway… / Someday we may all be surprised / we’ll wake and open up our eyes / and then we’ll all realize / the whole world feels the same… / We’ve all been leaving up and down / and turned around with love unfound / until we turn and face the sun / yes all of us, everyone”.

E Pete volle usare la sua voce fino alla fine: perché no? La vita è un dono meraviglioso, va usata tutta, per cose importanti e buone. Qui è con Bruce Springsteen a un concerto per Obama: con l’ultimo filo di voce canta la fierezza per i valori del proprio paese (che tanti politici e capitani d’industria vorrebbero seppellire), la fiducia nelle possibilità di ripresa dopo il disastro Bush: a condizione che tutti insieme teniamo a mente che ‘Questa terra è la nostra terra’.

Infine, la sua canzone più bella, di cui riporto sotto il testo. Fermatevi ad ascoltarla, senza fare altre tre cose nel frattempo.

Sarebbe bello se qualche direttore di Rete TV organizzasse una serata speciale, con i principali cantautori italiani che cantano ciascuno un paio di canzoni di Pete.

 

My Raimbow Race 

One blue sky above us, one ocean lapping all our shore
One earth so green and round, who could ask for more?
And because I love you I’ll give it one more try
To show my rainbow race, it’s too soon to die 

Some folks want to be like an ostrich, bury their heads in the sand
Some hope that plastic dreams can unclench all those greedy hands
Some hope to take the easy way, poisons, bombs, they think we need them
Don’t you know you can’t kill all the unbelievers? There’s no shortcut to freedom. 

One blue sky above us, one ocean lapping all our shores
One earth so green and round, who could ask for more?
And because I love you I’ll give it one more try
To show my rainbow race, it’s too soon to die 

Go tell, go tell all the little children, tell all the mothers and fathers too
Now’s our last chance to learn to share what’s been given to me and you 

One blue sky above us, one ocean lapping all our shores
One earth so green and round, who could ask for more?


Va’ dove ti porta Renzi – 1

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Perché le Nazioni declinano? In un bel libro recentemente uscito per Il Saggiatore Acemoglu e Robinson dimostrano che  all’origine vi sono sempre istituzioni poco ‘inclusive’. Lo sostengo almeno dal 2007.

L’obiettivo N.1 dei politici è la conquista e la conservazione del potere. Dove la rappresentanza funziona, tutto dipende dal popolo; perciò avranno ogni incentivo a perseguire l’interesse generale. Dove la rappresentanza funziona poco e male gli interessi decisivi per la conquista del potere si restringono: la classe politica promuove interessi più ristretti, particolari, e l’arricchimento dei clientes. Come? Il modo più veloce ed efficace non è lo sviluppo economico, bensì redistribuire i redditi e le ricchezze esistenti… a scapito dei più.

In alcuni casi, è a livello macro che s’impongono politiche contrarie all’interesse generale. Questa situazione sembra verificarsi oggi in Italia. La richiesta principale dell’elettorato nel febbraio 2013 – l’occupazione, la crescita – non è la priorità dell’élite. Prevale un’altra volontà, quella dell’Europa neoliberista. Dietro alla quale ci sono non tanto differenze di opinioni fra economisti sul modo migliore per raggiungere obiettivi condivisi, bensì altri obiettivi, che Mario Monti riassumeva con l’espressione ‘crescita del PIL potenziale’. Nel linguaggio degli economisti, ciò indica non il pieno utilizzo delle ‘risorse’ produttive, bensì il miglioramento della produttività di quelli che un lavoro ce l’hanno; ovvero, l’ampliamento della capacità produttiva del paese, a prescindere dal fatto se essa viene utilizzata o meno. Da qui l’accento sulle riforme strutturali. Il problema è che la capacità produttiva, se è inutilizzata, non regge a lungo: se alla recessione non segue una ripresa rapida e forte, i capannoni cadono in disuso, il know-how, il credito, si restringono, i giovani se ne vanno, i debiti crescono… e il paese muore soffocato.

Ora sappiamo che la ripresa ‘forte e rapida’ non c’è stata e non ci sarà: secondo la BCE, fra due anni la disoccupazione Europea sarà grosso modo sui livelli attuali (e finora ha sempre peccato di ottimismo). Il film ‘Smetto quando voglio’ racconta con divertente, drammatica ironia il punto di vista dei nostri giovani, costretti chi ad emigrare nei posti più strani, chi a vivere di espedienti e, privo di speranza, incattivirsi.  Il PIL ‘potenziale’ – lungi dal ‘crescere’ – è crollato del 5% circa (lo dice la Commissione Europea).

Quando una politica fallisce, le nazioni che non declinano sono in grado di cambiare strada (e classe dirigente). Ma non a caso. Nel 2008 il crollo di Lehman rivelò la gravità del fallimento delle politiche di Bush e Greenspan: l’America si affidò ad un progetto alternativo credibile, chiaro e dettagliato, di un tal Obama. Il quale a sua volta nel 2012 è stato sottoposto a un severo scrutinio dagli elettori: le esitazioni del 2010-11 stavano per costargli care. Ma le sue politiche moderatamente keynesiane (deficit pubblico sopra al 10% del PIL nel 2009 e 2010) mostrano risultati: a fine anno il PIL supererà del 10% quello del 2008, il deficit sarà al 3%, la disoccupazione al 6,5%.

Perché invece in Italia/Europa le politiche macroeconomiche non cambiano? Perché le finalità, le priorità politiche, per quanto impopolari, non cambiano. Dietro all’obiettivo della crescita del ‘PIL potenziale’ c’è un progetto – nel migliore dei casi, paternalistico, di alcune élite minoritarie – di trasformazione radicale delle nostre società: meno Stato (privatizzazioni), meno welfare (tagli alla sanità), meno tutele (nuove liberalizzazioni del mercato del lavoro), meno democrazia (Fiscal Compact), più Europa (‘l’Euro ce l’impone’). Il progetto si può condividere o meno (sicuramente conviene più alle élite auto-tutelate, che a tutti gli altri); ma viene promosso non grazie al consenso bensì attraverso il ricatto (della BCE sugli spread), l’uso strumentale dell’urgenza (siamo sull’orlo dell’abisso, bisogna fare un passo avanti…, presto, presto…), dell’Europa (‘ce lo impone l’Europa’), le ‘Leggi Porcellum’, innestate sulla flagrante violazione dell’Art.49 Cost. (democrazia nei partiti), le altissime barriere all’ingresso in politica. È consentito risolvere la crisi occupazionale e del PIL reale? Sì, ma solo attraverso una trasformazione ‘strutturale’ (in senso liberista) della società; le soluzioni facili, veloci (come le politiche di domanda, o un tasso d’inflazione un po’ più alto in Europa) non sono ammesse.

In altri casi, è a livello microeconomico che si fanno politiche ad particularem, contro l’interesse generale: le rendite oligopolistiche (autostrade) o improduttive (costi della politica), la politicizzazione delle carriere nella PA, sono solo alcuni ben noti esempi. Non si tratta di politiche solo parassitarie, ma anche distorsive: incentivano iniziative (improduttive) per assicurarsi queste rendite tramite legami politici o di altra natura che distruggono la selezione meritocratica. Tali distorsioni rallentano la produttività (essenziale per la crescita in piena occupazione). Il risultato è una società dove gli incarichi non sono distribuiti in base alle capacità, ai vantaggi comparati, dove insomma non ti lasciano fare quello che sai fare; una società depressa, poco innovativa, divisa fra privilegiati e outsiders, nemica dei giovani e dell’innovazione.

Se davvero alla radice dei nostri guai ci sono gli incentivi perversi di un sistema politico in larga misura sfuggito al controllo del corpo elettorale (ma ancora non completamente), dobbiamo chiederci quali riforme istituzionali possono aiutarci a cambiare strada, e quali invece aggraverebbero la situazione. Secondo Acemoglu e Robinson, tutte le riforme che creano istituzioni più ‘inclusive’, che allargano la rappresentanza, che aumentano il controllo della gran parte dei cittadini sull’operato dei politici, sono positive; e viceversa. Perciò la domanda è: le riforme istituzionali ed elettorali proposte da Renzi in che direzione spingono il sistema politico italiano? Cosa viene dopo? A quali politiche economiche preludono, e sono funzionali? Perché? Miglioreranno la situazione dell’Italia, o la aggraveranno? 

Va’ dove ti porta Renzi – 2 / Le radici

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Nel post precedente ho suggerito una riflessione sui possibili effetti economici delle riforme elettorali e istituzionali proposte da Renzi. Qualche lettore ci ha subito visto una critica al leader Pd. Ma il post era del tutto neutro: trattava dei criteri per valutare le riforme in discussione; sosteneva l’importanza di evitare istituzioni potenzialmente estrattive, lontane dagli interessi popolari, e di promuovere invece istituzioni ‘inclusive’. Sembra che il mero invito a riflettere sia vissuto come un’offesa da taluni, per i quali l’unico criterio che conta è ‘fare presto’: su questo ha insistito anche Pina Picierno (Pd) ieri sera a Ballarò. Ma in realtà anche il Porcellum fu fatto ‘in fretta’ da Berlusconi e soci: un week-end! Solo che era una porcata.

Prima di entrare nel merito delle proposte renziane è dunque opportuno continuare a riflettere su costituzionalismo e democrazia. Nell’era moderna, almeno dalla Glorious Revolution del 1688, dalla Costituzione Usa (1787), e dalla rivoluzione borghese in Francia (1848), quando diciamo colloquialmente ‘democrazia’ intendiamo in realtà ‘democrazia liberale’: un regime dove la maggioranza assoluta non decide sulle questioni veramente importanti senza una maggioranza più larga, qualificata. Non intendiamo democrazia ‘popolare’, come a Cuba. Né democrazia ‘giacobina’, dove chi rappresenta il 51% può tagliare la testa agli avversari politici. Né la democrazia di Platone, dove solo i filosofi hanno il diritto di governare. Ma ‘attenzione!’, diceva Platone nel celebre paradosso della democrazia: “L’eccesso di libertà induce i cittadini a consegnarsi a un difensore, solitamente un demagogo, il quale sollecita le istanze irrazionali degli individui e riesce a farsi consegnare ‘democraticamente’ il potere, trasformandosi in tiranno, ed eliminando tutte le libertà della democrazia” (Franco Ferrari).

Chi è oggi, in Italia, il demagogo aspirante-tiranno descritto da Platone? Berlusconi? Grillo?! Qualcuno che ancora non si è rivelato? Ma in ogni caso – scrive il lettore ‘Magheggio’ -, non è forse colpa degli italiani che li votano? Acemoglu e Robinson osservano che quando (le istituzioni democratiche di) un paese declina(no), quando una casta estrattiva si installa al potere e riesce a svuotare progressivamente la democrazia di contenuto lasciando (quasi) solo le forme, cosicché per il corpo elettorale diventa difficile sostituirla o trovare alternative valide, allora gli elettori tendono a rivolgersi a un leader populista, che promette di liberare il paese da quegli sfruttatori. Per far ciò, spesso il leader populista chiede maggiori poteri, e di cambiare la Costituzione. Ma una volta ottenuti, ridotti i condizionamenti delle minoranze e degli altri poteri dello Stato, egli si ritrova le stesse opportunità di utilizzare le istituzioni per conservare il potere, le stesse domande di favori e arricchimento dai suoi: e nessuno in grado di limitarlo. Quasi inevitabilmente, segue un aggravamento del declino.

Il caso di Peròn e di Roosevelt è emblematico dei diversi destini dei due continenti americani. Peròn nel 1947 chiese ed ottenne dal Parlamento di riformare la Costituzione argentina, per mettere sotto controllo la Corte Suprema che gli si metteva di traverso. Da allora ‘aggiustare’ la Costituzione è divenuta un’abitudine dei leader populisti, e la Corte Suprema è diventata un organo politicizzato. La qualità dei governi è crollata. Il Pil pro capite, non dissimile dagli Usa nel 1947, è oggi un terzo.

 gdp-argentina

Roosevelt nel 1938 presentò la stessa richiesta al Congresso Usa, e con più ragioni, dato che la Corte Suprema si opponeva con pretestuosi cavilli al New Deal. Ma il Congresso, controllato dal suo partito, il Pd, disse no: anche se nello specifico egli aveva ragione, le istituzioni democratiche, l’equilibrio e la suddivisione del potere erano valori di fondo troppo importanti. Questa è l’essenza della democrazia liberale: ‘il giorno dopo’ le elezioni non c’è un ‘vincitore’ assoluto, un sindaco insindacabile, un uomo al comando con i pieni poteri, ed insostituibile perché eletto dal popolo; ma un insieme di istituzioni che lo controllano, talvolta lo limitano, gli chiedono conto, e se necessario lo sostituiscono.

L’intuizione ‘costituzionale’ è nel nostro Dna, essendo alla base del successo di Roma antica. Lascio la parola all’archeologo Andrea Carandini che in vent’anni di scavi nel Foro è riuscito a trovare impressionanti riscontri di quelli che finora erano considerati i ‘miti’ della fondazione di Roma (inclusa la Constitutio Romuli).

In Oriente, la città e lo stato si sono incentrati su un palazzo fortificato, ‘proibito’, corte di un sovrano assoluto, ed era in questa fastosa dimora che il despota prendeva le sue decisioni. In Occidente, al contrario, le città-stato antiche si sono incentrate… sulla elevata acropoli e… sull’agorà o foro nella città bassa… centri sacrali e politici di una ‘cosa pubblica’. Se la città-stato, all’origine, è retta da un monarca, essa appare tuttavia di tipo ‘costituzionale’… La casa del re, infatti, appare alquanto modesta… [indice di] un potere limitato da altri corpi, quali il consiglio degli anziani e l’assemblea popolare…”

Esiste ancora [oggi] un legame storico-identitario con i primi romani? O Romolo equivale a un re primitivo di una qualsiasi altra parte del mondo? Io credo che un legame con … il tempo di Omero e di Romolo sussista ancora, sia vivo, e consista nella scoperta che gli antichi fecero – in Grecia, in Etruria, a Roma – di un modo peculiare di vivere organizzati, di un dispositivo sacrale-giuridico-politico-statale per il quale vari corpi della comunità (il re, l’aristocrazia e il popolo) riescono a convivere mitigando il potere centrale entro un’organizzazione unica, che possiamo chiamare, con gli antichi, ‘costituzione mista’. Si tratta dell’arte difficilissima di essere concordi al di sopra delle discordie, di dividersi senza considerarsi nemici… La Storia … orientale [invece, venne] fondata su città e regni a carattere intrinsecamente dispotico… La nostra identità pre-cristiana riguarda pertanto non solamente il ius dei Romani… ma anche il più ampio dispositivo politico-costituzionale statale”.

Va’ dove ti porta Renzi / 3 – Le riforme

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Per fermare il declino:

Esso ha una duplice caratteristica. Il Governo

  • viene affidato a chi rappresenta almeno la metà dell’elettorato
  • è severamente controllato e limitato da:

            –  i diritti e i poteri di veto delle minoranze;
            – la Costituzione, e l’autonomia di altri poteri dello Stato.

Ciò limita gli abusi del potere, e induce i politici a favorire un insieme più vasto di interessi, prossimo all’interesse generale del paese.

Alla radice del declino italiano c’è l’allontanamento dalla democrazia liberale e dalla Costituzione, che ha generato comportamenti politici contrari all’interesse generale. Per valutare le proposte di riforma istituzionale bisogna dunque chiedersi se tendano a rendere il sistema più inclusivo e rappresentativo o meno. Non ho la verità in tasca, dunque faccio solo qualche domanda.

Legge elettorale

1)  La Corte Costituzionale ha sentenziato che il premio di maggioranza del Porcellum era ‘irragionevole’. Un premio del 16%, ottenuto con il 37% dei voti validi, è ragionevole?

2)  Gli sbarramenti contro i partiti piccoli dovevano impedire ‘ricatti’ al governo. Ma nell’Italicum la governabilità è già garantita dal premio di maggioranza e dal ballottaggio, che attribuiscono alla prima minoranza il 53% dei parlamentari. Allora gli sbarramenti che scopo hanno?

3) L’Italicum è un maggioritario ‘alla quarta’. Il primo effetto maggioritario è quello spagnolo, dato dai collegi piccoli. Il secondo è il premio di maggioranza. A questo si aggiunge il ballottaggio. Infine vi sono le soglie di sbarramento (altissime per chi non si ‘coalizza’: si parla del 12%). L’effetto cumulato produce una distorsione enorme delle preferenze del corpo elettorale, larga parte del quale non sarà rappresentato al Governo. Siamo ancora in democrazia liberale?

4) Se il primo partito prende il 40% e gli altri non superano le soglie di sbarramento, il primo prende il 100% dei seggi?

5) Se al ballottaggio accedono (prevalgono) coalizioni diverse al Senato e alla Camera, l’Italicum non garantisce neppure la governabilità. Non sarebbe meglio affrontare prima l’abolizione del Senato? O si vuole ‘forzare la mano’ al Parlamento sull’assetto Costituzionale?

6) ‘Sapere la sera stessa chi governerà il giorno dopo le elezioni’: per 20 anni – fino al governo Monti – sapevamo: il paese è in macerie! Sicuri che sia un buon obiettivo? Non è più importante sapere chi governerà dopo sei mesi? L’Italicum obbliga i partiti a formare grandi coalizioni elettorali; ma poi, in Parlamento, essi hanno ogni incentivo a porre dei veti per strappare vantaggi: sicuri che alla fine non avremo più instabilità? Non era meglio la ‘sfiducia costruttiva’?

7) La classe politica italiana s’è abituata a scaricare sulla legge elettorale la sua incapacità. Davvero il fallimento della 2° Repubblica è stato causato dai partiti minori? La grande sfida era l’Euro: come restare competitivi, come ritrovare nuovi equilibri geopolitici. Alle classi dirigenti è mancata la consapevolezza di queste sfide; perciò hanno fallito: ma hanno fallito politicamente. A che pro aumentare la ‘governabilità’ a scapito della rappresentanza, se non per blindare vecchie politiche fallite e impopolari?

8) L’italicum sembra fatto apposta per consentire a Renzi e a Berlusconi di sbarazzarsi di avversari interni ed esterni e poi giocarsi il paese a dadi. Ma così si favorisce la piaggeria e la politicizzazione delle istituzioni. E si avvantaggia chi, come Berlusconi, è in grado di coalizzare le forze più eterogenee. Non c’è il rischio di consegnare l’Italia a un Le Pen (v. Legge Acerbo 1924)?

9) La democrazia richiede qualcosa di più che le sole elezioni: a maggior ragione con il maggioritario. Ma in Italia gli stabilizzatori democratici sono indeboliti. Vogliamo introdurre il maggioritario senza che gli elettori possano scegliere i parlamentari (collegi uninominali, preferenze, primarie, democrazia nei partiti), senza sciogliere le concentrazioni mediatiche, senza limitare lo spoil system nella PA e nelle Autorità Garanti, l’abuso dei decreti legge, la concentrazione dei finanziamenti ai partiti nelle mani di un sol Uomo (il Segretario), le storture delle Commissioni elettorali, i conflitti d’interesse?

10) Si dice: se oggi si votasse con la proporzionale vigente l’Italia sarebbe ‘ingovernabile’. Ma l’offerta politica e il voto cambiano in funzione del sistema elettorale. Inoltre, quando nessuna proposta è totalmente convincente, in molti paesi si votano partiti diversi per obbligarli ad un’alleanza in Parlamento, affinché ciascuno imponga agli altri di rinunciare alla parte più impopolare del suo programma. Perché toglierci questa possibilità?

Abolizione del Senato

11) L’abolizione del bicameralismo perfetto riduce la trasparenza del procedimento legislativo di fronte ai cittadini; e facilita la decretazione d’urgenza che umilia il Parlamento. In Italia si fanno troppe leggi e male. L’esigenza di ‘sveltire’ si riferisce all’azione amministrativa: cosa c’entra il Parlamento?

12) Abolendo il Senato ed eleggendo direttamente di fatto il Presidente del Consiglio, si indeboliscono i ruoli del Presidente della Repubblica e del Parlamento. Mancando le preferenze, bisognerebbe reintrodurre il vincolo di mandato. Si vuole farla finita con il Parlamentarismo? Ma allora non sarebbe più coerente fare un buon Presidenzialismo, passando attraverso un’Assemblea Costituente eletta su base proporzionale?

13) Sui costi della politica: i cittadini avevano chiesto un drastico taglio degli emolumenti non solo per ‘risparmiare’, ma anche per moralizzare la politica, sgonfiare il ‘mercato delle preferenze’, riappropriarsi della selezione degli eletti, dare una possibilità d’entrata a chi porta in dote progetti per il bene comune. Da Veltroni in poi, i leader hanno invece dirottato l’opinione pubblica sulla riduzione del ‘numero’ dei Parlamentari (tanto la cosa non li riguarda: loro si auto-nominano al Parlamento). Non è un po’ una truffa?

Conclusione

14) L’attuale Parlamento è stato eletto con una legge elettorale incostituzionale non democratica. Per il principio di continuità dello Stato è legittimato a legiferare: ma certo ciò non significa che sia anche legittimato a cambiare la Costituzione? Quale legittimità avrebbe una Costituzione fatta da un Parlamento eletto con metodo non democratico?

Sbaglierò, ma a me pare che le riforme e la “profonda sintonia”  di Renzi e Berlusconi non spingano il sistema politico verso l’inclusività: temo perciò che possano aggravare il declino e l’imbarbarimento.

Il governo italiano e la necessaria riforma dell’Eurozona

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Dal nuovo Presidente del Consiglio filtrano alcune buone notizie sulla volontà di proporre all’Europa una profonda riforma dell’Euro. All’uopo Renzi – secondo indiscrezioni di stampa – vorrebbe sfruttare la prossima Presidenza italiana dell’Unione Europea. Se fosse vero, il Governo italiano sarebbe il primo ad interpretare la Presidenza di turno dell’Unione come un’occasione di leadership non meramente formale, il primo a portare al livello intergovernativo le proposte di quegli economisti che hanno previsto correttamente la gravità della crisi europea e ne hanno da tempo indicato i rimedi.

Si tratta tuttavia di sfide altissime: non a caso finora nessuno ci ha provato. Come ha scritto ieri Roberto Napolitano sul Sole 24 Ore, vanno preparate con meticolosità. Non dovremmo mai scordare la lezione di Machiavelli sull’importanza dei rapporti di forza, e sul pericolo rappresentato dai profeti disarmati allo sbaraglio: senza mezzi proporzionati alle ambizioni causano “la ruina” dello Stato. In Europa serve un Borgia, non un Savonarola: “Siate semplici come colombe, prudenti come serpenti!”.

La natura della sfida è innanzitutto tecnica. L’economista top del momento ha appena diffuso in rete uno studio sulle riforme minime necessarie per rendere l’Euro funzionale: esse occupano non meno di settanta pagine! Renzi vorrebbe abolire il limite del deficit pubblico al 3% del Pil: posizione saggia quando si è in recessione come adesso, meno quando si è in piena occupazione; su questo pochi sono in disaccordo.

Ma una riforma tiene l’altra: una singola modifica non regge da sola; occorre cambiare l’intero paradigma. Per fare ciò occorreva un Ministro dell’Economia orientato in tal senso e con una visione adeguata, non un altro sostenitore della linea Monti-Letta-Saccomanni-Draghi-Merkel. Padoan è invece un esponente di quella sinistra che ha perso le radici e l’anima: infatti, era l’alternativa a Saccomanni nel Governo Letta. Da chief economist dell’OCSE ha sostenuto la stupida austerità e il paradigma vigente. Speriamo che ci sorprenda, ma non ci scommetterei.

Un esempio della necessità di una riforma sistemica dell’Euro lo dà il nostro top economist a pag. 17: “Nella prima parte del 2011 – in piena recessione, sola fra le grandi banche centrali, partendo da un livello dei tassi nettamente superiore alle altre -  la BCE ha alzato due volte i tassi d’interesse, in risposta non già a pressioni inflazionistiche interne, bensì a un leggero, temporaneo aumento dei prezzi delle materie prime: una misura ‘preventiva’! Come avevano previsto diversi economisti, compreso chi scrive, la mossa della BCE mise in discussione, con la crescita, anche la sostenibilità dei debiti pubblici, e provocò l’immediato crollo dei titoli di Stato di Italia, Spagna, e Portogallo.”

tassi-banche-centrali 

L’aumento dei tassi nel 2011 indicò che la BCE considerava eccessiva la pressione della domanda  aggregata sui prezzi; in altre parole, la disoccupazione non era abbastanza elevata da contenere adeguatamente i rischi di inflazione. Ne consegue che se la depressione in quella fase fosse stata meno grave, la BCE avrebbe alzato ulteriormente i tassi, per riportare la domanda e la disoccupazione sul trend effettivamente registrato nel 2011-12”. Se cioè i governi avessero fatto meno austerità la BCE avrebbe compensato, annullando i vantaggi di crescita.

Oltre alle difficoltà ‘tecniche’ ci sono enormi difficoltà diplomatiche: perché l’Europa (in particolare la Germania e la BCE) sono determinatissime a contenere l’offensiva di Renzi, ed anzi ad utilizzarla a proprio vantaggio per rafforzare la presa ferrea del liberismo sulle nazioni europee, offrendo allentamenti congiunturali in cambio di un ulteriore indurimento delle stupide regole depressive. Ma per avere anche solo qualche possibilità di vincere la sfida diplomatica contro l’autolesionismo europeo occorre, oltre a un Parlamento Europeo rinnovato e solidale, una solidarietà non formale di Obama, una disponibilità di Francia e Spagna, anche un Presidente del Consiglio con una chiara visione di dove vuole arrivare e come, un Ministro dell’Economia in piena sintonia, e un paese compatto, in grado di resistere ai possibili tentativi di destabilizzazione dall’estero.

In mancanza di queste condizioni, continueremo a viaggiare sul crinale di un piano inclinato, da cui non ci sottrae una lentissima ripresa, mentre la fuga dei giovani minaccia di rendere alla lunga insostenibile il welfare e il debito pubblico. E però, anche se a molti lettori non piacerà, non possiamo non sperare nel successo di Renzi.

Inflazione, la Bce manca gli obiettivi nel momento peggiore

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Chi ha detto che in Italia non cresce più nulla? La disoccupazione raggiunge il 13%, il debito pubblico approssima il 133% del Pil, le sofferenze bancarie varcano la soglia dei 160 miliardi, 8,2% degli impieghi: sei anni fa erano il 2,8%. Ma basta cambiare prospettiva, e una salita diventa una discesa. Per ogni disoccupato ci sono oggi solo 6,7 occupati, erano 15 nel 2008. Il Pil è sceso al 75% del debito pubblico. Le banche hanno 11 euro di crediti “buoni” per ogni euro che non viene onorato (dai 35 euro del 2007).

Tabella_1

Cos’hanno a che vedere questi dati con la Bce? Il fatto è che la banca centrale ha anch’essa dei doveri. L’art. 127 del Trattato sull’Unione statuisce che una volta raggiunta “la stabilità de prezzi” la Bce deve “contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea”. Che sono: “La pace e… il benessere dei suoi popoli… la crescita economica… la piena occupazione e il progresso sociale… la coesione economica, sociale e territoriale tra gli Stati membri”. Nell’ottobre 1998 il Consiglio direttivo della Bce ha dato una definizione quantitativa, tuttora vigente di “stabilità dei prezzi”: “un aumento sui 12 mesi dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo per l’area dell’euro inferiore ma prossima al 2%, su un orizzonte di medio termine”.

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L‘inflazione in Europa è 0,8%, ben lontana dall’obiettivo statutario. Ma quali sono le prospettive di medio termine? Gli indicatori anticipatori come l’indice dei prezzi alla produzione hanno iniziato a scendere. Scendono i prezzi degli immobili. Decelerano i salari (+2% un anno fa, +1% oggi). L’ultimo Survey of Professional Forecasters prevede l’inflazione all’1,1% nel 2014 e all’1,4% nel 2015. Il break-even rate sul mercato dei titoli pubblici tedeschi indicizzati segnala attese di inflazione nei prossimi 5 anni intorno all’1%. Il Bollettino di febbraio della Bce rivela che il tasso di crescita della moneta (M3) continua a ridursi (+1% nei dodici mesi, rispetto al 4% del 2012 e al 12% del 2007), il credito all’economia continua a contrarsi (passando dallo 0% del primo trimestre 2013 al -0,4% di giugno, -1,4% di novembre e -2% del dicembre scorso). La Bce prevede pertanto “un prolungato periodo di bassa inflazione” nel medio termine.

La Bce sta mancando gli obiettivi d’inflazione nel momento peggiore. Un punto in meno di inflazione in Italia accresce il rapporto debito pubblico/Pil di 1,25 punti percentuali ogni anno. Inoltre, scoraggiando l’espansione della domanda, del Pil e dell’occupazione, fa salire il deficit pubblico e le sofferenze bancarie. A sua volta un deficit più alto genera più austerità e, quindi, meno occupazione. Infine, se l’inflazione europea fosse al 2% o al 3% l’Europa mediterranea – con l’inflazione a 0,5% – potrebbe recuperare 2% di competitività ogni anno, senza cadere in deflazione. La banca centrale sta invece mancando, oltre agli obiettivi monetari e dei prezzi, anche gli obiettivi sociali: che non cita mai ma che sono previsti dall’art.3 del Trattato sull’Ue.

A Francoforte si potrebbe fare di più? Non si afferma di avere già una “politica monetaria accomodante”? L’orientamento della politica monetaria non si giudica in base al fatto se i tassi d’interesse sono alti o bassi, perché tutto è relativo alle condizioni della congiuntura. Secondo la Taylor Rule – la regola aurea della politica monetaria – i tassi d’interesse a breve dovrebbero essere attualmente fra 0% e -0,6%: perciò il livello attuale dei tassi (+0,25%) non è affatto accomodante. La Bce potrebbe almeno portarli a zero: come fanno paesi – Usa, Giappone – dove la crescita nominale è più alta che da noi, e l’output-gap inferiore; a maggior ragione se la manovra è “poco efficace” bisogna aumentare la dose. La Bce, inoltre, “potrebbe essere più creativa – come la Banca d’Inghilterra – nelle sue politiche contro il credit crunch”. Come la Fed, potrebbe fare un “quantitative easing“. E “potrebbe rendere più chiara e credibile la sua forward guidance” (Roubini).

Sembra invece che l’attenzione di tutti sia concentrata sulla questione della deflazione (arriva, non arriva?). Secondo Mario Draghi “la Bce monitora attentamente gli andamenti monetari ed è pronta a intervenire” nel caso la deflazione diventi un rischio reale. Anche l’ex-capo economista dell’Ocse, Pier Carlo Padoan, lo scorso gennaio ha lanciato l’allarme deflazione, invitando la Bce a “tenersi pronta” a reagire. Ma perché la Bce dovrebbe reagire solo se l’inflazione diventa negativa, e non se è disastrosamente, illegalmente bassa?

Finora abbiamo assistito in silenzio alle inaudite pressioni di altri paesi che, brandendo lo spauracchio dell’inflazione, miravano ad impedire alla Bce di fare il suo dovere. Ma quale inflazione? La Bce ha un mandato straordinariamente limitato, che non ha uguali in nessun’altra parte del mondo. Almeno quel poco che i Trattati Europei prevedono ha il dovere di attuarlo: non con misure di facciata, ma con l’energia che la presenza in Europa di 26 milioni di disoccupati impone.

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