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Referendum, le manipolazioni che non si possono premiare

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Stasera a cena, ospiti di una deliziosa coppia di amici, entrambi quotati professionisti (Banca d’Italia ecc.), come sia, come non sia, siamo finiti a parlare del referendum del 4 dicembre. Per fortuna abbiamo evitato di entrare nel merito. Parlare di metodo è più interessante, rivela molte più cose sull’Italia di oggi, al di là delle rispettive posizioni. È giusto che il governo spinga, nel modo in cui lo sta facendo, una riforma di parte del testo fondamentale del nostro stare insieme? Nel 1948, cattolici, liberali, e comunisti non erano forse assai più lontani, in un paese drammaticamente lacerato? Eppure cercarono e trovarono un ampio accordo (88% dei parlamentari, davvero rappresentavano l’88% dei votanti) che portò al ‘miracolo’ italiano! Le Costituzioni, si fanno così.

Ma la legge Boschi è davvero una Costituzione di parte? Per esempio Berlusconi all’inizio non era contrario! Vero. Ma poi, in Parlamento, in 6 votazioni il consenso alla ‘riforma’ non ha mai superato il 58%. Il 58% di cosa? Di un Parlamento eletto con legge maggioritaria (quindi in realtà quel 58% di parlamentari rappresenta meno del 50% dei votanti). Inoltre, i nostri onorevoli non siedono forse in Parlamento in modo illegittimo? No. Abbiamo rapidamente convenuto che l’attuale Parlamento non è illegittimo. La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la legge elettorale con la quale è stato costituito; ma anche che c’è un interesse superiore e prevalente: la continuità dello Stato. Per garantire la quale l’attuale Parlamento è legittimato a lavorare. A cosa? Alla legislazione ordinaria. E a una legge elettorale – stavolta costituzionale, democratica – che consenta al Parlamento di sciogliersi e rinnovarsi. Non è però legittimato a cambiare la Costituzione. I miei amici l’hanno riconosciuto quasi subito, dopo aver tentato un: “Se così fosse, il NO avrebbe fatto ricorso”. Non esistono ricorsi in questa materia.

E qui è successa una cosa che mi ha sorpreso. Il mio amico ha detto: “Allora è stato bravo Renzi ad approfittare della situazione con astuzia!”.

In un attimo, il nostro dibattito se la nuova Costituzione fosse di parte o meno era saltato. Tornato a casa, mi sono ritrovato a riflettere nervosamente, a cercare di capirli. Se fossi al posto loro, ragionerei così? Se la riforma fosse come la vorrei io: di segno opposto… Se imponesse maggiori controlli – non minori – ai nostri politici magna-magna; se prevedesse lentezza, meditazione, scrutinio pubblico sul cambio delle regole del gioco, sul legiferare (per le urgenze ci sono i decreti). Se la velocità la imponessero piuttosto, nell’applicare le leggi, alla P.A. … Se intravedessi la prospettiva di un mondo (per me) migliore: mi acconcerei ad una riforma costituzionale di parte? Sarei tentato, sì? Ma mi torna in mente il Parlamento eletto in modo illegittimo, e so! Al posto di Renzi avrei, al massimo, aggiustato la legge elettorale proporzionale emersa nel 2014 dalla sentenza della Corte, e sciolto il Parlamento, per eleggerne uno democratico.

Poi avrei avvertito il popolo: “Voglio cambiare la Costituzione, così e cosà, è il mio biglietto da visita, sappiatelo!”. Quando nel 2013 li ho votati, nessuno mi ha detto che intendeva cambiare la Costituzione.

Mi sono tornate in mente tutte le manipolazioni del governo. Non mi fanno votare le modifiche una per una (quesito referendario non univoco). Per esempio se voglio ridurre il numero dei senatori devo anche rinunciare ad eleggerli io. Perché? Dicono: la riforma costituzionale ha una sua organicità, non si può votarne un pezzo e non l’altro. Palle! Perché non posso ridurre a 100 i senatori e continuare a eleggerli io? Hanno messo una foglia di fico davanti alla riforma, un’esca per attirarmi. Dicono: “risparmierete 500 milioni”. Ma sono “nel migliore dei casi, 161” secondo l’economista, onesto bocconiano, il molto rispettato Roberto Perotti. Penso alla legge elettorale introdotta nel 2015, che dovrebbe ‘indurmi’ a votare Sì per non cadere in un paese ingovernabile (due maggioranze diverse fra Camera e Senato) ecc ecc.

Bugiardi e falsari sono equamente distribuiti fra i due campi. Ma altra e più grave cosa sono le manipolazioni con cui si tenta di introdurre la nuova Costituzione. La democrazia moderna nacque nel 1724 in Inghilterra quando John Huntridge, sospettato di bracconaggio, fu assolto da una giuria di proprietari terrieri ostili al bracconaggio che ragionarono così: “Se oggi calpestiamo la legge per favorire i nostri interessi, domani il Re potrà fare lo stesso contro di noi. Ci conviene affermare ‘the rule of law’ in ogni occasione”. Ragionando all’opposto muoiono democrazia e libertà. E l’Economist ricorda (a Trump): “Questo non si fa!” (non si usa) è il “central organising constitutional principle of the UK”. Anche in America: non si dice ‘negro’, non si blocca il Congresso per fini di parte, non si mente agli elettori, non si fa l’apologia del nazismo, non si usa il potere gerarchico per provarci con una donna, ecc. “It just isn’t done” matters; it is a critical piece of social infrastructure that helps keep society running”. Anche l’etica… conta! In Italia sarò forse tra i pochi a pensarla così, ma in ragione dei metodi seguiti dal governo voterò No: non voglio che chi li usa prevalga. La prossima volta eleggano il Parlamento in modo democratico, trovino un accordo che rappresenti i due terzi degli italiani, al referendum mi pongano quesiti univoci… Allora potremo iniziare a discutere nel merito.

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Il discorso di Renzi alla segreteria del Pd

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Al termine di un’atroce guerra di secessione durata quattro anni, non di una campagna referendaria di sei mesi, i Confederali del Sud furono sconfitti dagli Unionisti del nord. Ma in pochi mesi gli Stati Uniti divennero una nazione pacificata, con un progetto comune condiviso, vincente. Come spiegare il miracolo?. In realtà, avvenne qualcosa di speciale: i leader fecero la differenza.

Pochi giorni dopo la resa del sudista Lee, il capo dei vincitori Lincoln tenne un discorso a Washington. La gente in delirio s’aspettava un trionfale victory speech. Lincoln parlò invece di come ricostruire il Paese… Qualche settimana dopo, il capo dei sudisti tenne un discorso in Virginia, in cui disse che avevano affidato alla guerra il giudizio sui loro ideali contrapposti a quelli nordisti. Ma il Destino, la Storia, o la volontà di Dio avevano sentenziato contro di loro. Bisognava prenderne atto, trarne le conseguenze, e guardare avanti. Ma come? Gli ideali dei vincitori (abolizione della schiavitù, un’unica grande nazione) dovevano avere un senso. Compito della gente del sud era di unirsi al nord in un progetto comune basato sui principi di fondo che avevano prevalso. La gente del sud era chiamata a cogliere e interiorizzare i valori (fondanti) proposti dal nord (non, ovviamente, il resto).

Ai nostri giorni. Renzi ha sempre detto: non si può discutere in eterno, c’è il tempo della discussione, ma poi c’è il tempo della decisione e dopo si rema tutti nella stessa direzione! Giusto. Come nei paesi che funzionano. Per fortuna il 4 dicembre 2016 – data da ricordare perché fondativa -, non poteva esserci decisione più chiara e netta. Ampia maggioranza, benché in “inferiorità mediatica”, e grande partecipazione. Qual è stata la decisione? Questo il valore fondante che ha prevalso: “La democrazia liberale, nel mondo veloce e globalizzato di oggi, non è il problema, è lo strumento principe per la ricerca del bene comune”. Democrazia “liberale” significa “vincolata”. Il potere dei “vincitori” della maggioranza è limitato: da una Costituzione, da contropoteri indipendenti dal governo; dal favorire la partecipazione alla maggioranza di una pluralità di forze, interessi, idee, partiti che si coalizzano tramite negoziati e compromessi.

Ecco i nostri valori fondanti confermati il 4-12-2016. Non si tratta più di cercare un equilibrio fra democrazia ed efficienza (salvo estremismi), ma di massimizzare la democrazia liberale, perché è positivamente correlata con l’efficienza. Non vogliamo tante leggi veloci, ma poche leggi fatte bene nell’interesse dei cittadini. Per avere un buon governo è meglio controllare il politico mentre lavora, piuttosto che limitarci a giudicarlo da elettori ogni 5 anni. Ecc. Questi valori sono stati attaccati nel 2006 dalla casta di destra (Berlusconi, l’uomo del fare, lasciatemi lavorare, se avessi tutto il potere, se non ci fosse Fini… ecc.), e nel 2016 da Renzi (con argomenti simili). Ora però, per favore, basta! Chiudiamo questa discussione per una generazione, e facciamo del risultato referendario un’occasione di unità nazionale.

Renzi, il capo degli sconfitti, nel suo dignitoso addio ha inserito una frase di troppo, annunciando future ‘vittorie’ e rivincite. Ma oggi 7 dicembre terrà un discorso alla Segreteria nazionale del Pd. Se fosse uno statista, direbbe…

Cari PD-ini, e italiani del Sì: il 4 dicembre una decisione è stata presa. Essa riguarda un quadro istituzionale, e anche in prospettiva la sua evoluzione. E’ diversa da quella che avevo immaginato, ed è basata sui valori liberali, che hanno chiaramente prevalso. Prendiamone atto. Cessiamo di vagheggiare rivincite e prepariamoci a contribuire alla via indicata dal popolo. L’obiettivo comune, che può rendere l’Italia una comunità, è il loro progetto di nazione (rif.to solo ad alcuni aspetti emersi il 4 dicembre). Per farlo nostro, dobbiamo capire meglio i valori del No. Mettiamoci in atteggiamento riflessivo. Dopo le nostre piccole forzature, il popolo del No vorrà veder messa in sicurezza la procedura di revisione costituzionale… Vorranno veder attuata (con leggi ordinarie) la Costituzione in ogni sua parte. E laddove attuata, anche applicata! Sgombrando il sistema da tutto ciò che incentiva le cordate affaristiche a tentare l’assalto alla politica: ad es. riducendo gli stipendi dei politici piuttosto che il loro numero. Riflettiamo sulla legge Madia, che politicizza ulteriormente la Pubblica amministrazione contro lo spirito dell’art. 98 Cost. Collaboriamo a una nuova legge elettorale meno maggioritaria e più inclusiva, in sintonia con i valori del No e della Corte costituzionale… se i “vincitori” in maggioranza saranno tanti, complicando il governo, saranno però più inclini a governare nell’interesse di tanti”.

“So infine che il 4 dicembre molti mi hanno votato contro per l’economia. È vero: nei mille giorni del mio governo ho ignorato il Problema di fondo, perché affrontarlo è difficile e rischioso. Ma dopo il 4 dicembre, so che nei prossimi mesi o anni vinceremo o periremo insieme, noi italiani, nel tentativo forse disperato di riconquistare una sovranità, largamente perduta con la moneta. Il Pd non dovrà più sottrarsi: la “nazione” non è un concetto di destra, è il luogo dove la democrazia difende la gente. L’Europa non deve inglobare tutto, ma crescere in modo selettivo (difesa comune, ecc). Forse la sinistra liberale, cattolica e socialista democratica – proprio le forze costituenti di ieri – ritroverà, nel crogiuolo della nuova crisi che si prepara, i suoi valori”.

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L’uscita dall’euro? Possibile senza catastrofi

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di Alberto Bagnai e Piergiorgio Gawronski

L’analisi di Giuseppe Siciliano di una ipotetica uscita dell’Italia dall’euro a nostro avviso dimostra il contrario di quanto affermato nel titolo (L’uscita dall’euro? Benvenuti all’inferno); cioè che l’uscita è possibile senza catastrofi. Questo perché gli squilibri che ne deriverebbero, individuati dall’autore, sono gli stessi provocati da ogni svalutazione o riallineamento del cambio in regime di cambi fissi. Vi sono alcune difficoltà aggiuntive, ma sono gestibili laddove ci sia la volontà politica di farlo.

I toni apocalittici dell’autore, ripresi dal titolo, si basano in larga misura sull’ipotesi che “i capitali esteri lascerebbero il paese” dopo aver subito “rilevanti perdite” a causa della ridenominazione in lire delle obbligazioni private (bancarie) e pubbliche. Quest’ipotesi non è credibile, sulla base delle seguenti considerazioni giuridiche ed economico-finanziarie.

Nello sciagurato scenario di conversione forzosa, in lire, di tutti i titoli e depositi – prospettato da Siciliano – dal punto di vista giuridico non è vero che eventuali controlli preventivi dei movimenti di capitali non sarebbero attuabili perché “in contrasto con le norme Ue”. L’art. 66 del Trattato sull’Unione europea (versione consolidata) precisa che il Consiglio può limitare i movimenti di capitale, per un periodo non superiore a sei mesi, in caso di circostanze eccezionali. Questo articolo è già stato applicato nel caso di Cipro.

Nello scenario dell’introduzione, per un periodo transitorio, di una doppia circolazione monetaria, con ridenominazione forzosa (qui l’autore non è chiaro) in lire delle sole obbligazioni pubbliche e bancarie – ma non dei depositi bancari (e, suggeriremmo noi, neppure di parte dei mutui) -, dal punto di vista economico-finanziario l’idea che dopo il change over gli investitori si ritirino è irrazionale. Se così facessero, questi investitori esteri sarebbero proprio stupidi: abbandonare l’Italia – vendere le obbligazioni e i titoli pubblici italiani – dopo aver subito le perdite e non prima!

In realtà “dopo” l’uscita dall’euro (la ridenominazione in lire) i titoli italiani sarebbero più appetibili (non essendoci più rischi di nuove grandi svalutazioni) e gli investitori non avrebbero più motivo di ‘andarsene’. Invece, è ‘prima’, cioè adesso, che gli investitori se ne stanno andando. Lo dimostrano le massicce fughe di capitali in corso da un anno, ben documentate da Carmen Reinhart su Project Syndicate). Così l’Italia muore: perché ora al rischio uscita-svalutazione somma l’impossibilità di crescere.

Del resto, qualsiasi manuale di economia spiega che i mercati anticipano razionalmente (incorporandole nei prezzi) le conseguenze degli eventi futuri “attesi”, cioè “possibili”: il che significa, in buona sostanza, che quando l’evento si materializza non si verifica alcuna particolare catastrofe. Ad esempio, il Btp 01/11/26 già oggi quota 148, il 10% al di sotto dei suoi massimi storici; poiché il calo non può essere addebitato a una ripresa congiunturale, esso rappresenta il “rischio Italia” addizionale nel frattempo intervenuto. La quota totale del “rischio exitaly” (= rischio default degli emittenti + rischio di cambio) già incorporata nei prezzi non è dunque marginale. Anche perché il ‘rischio emittenti’ non va sovrastimato, considerato che la necessità di ri-monetizzare con le lire l’economia italiana lascerebbe al governo una riserva finanziaria non inflattiva del valore di 150-200 mld di euro a garanzia della stabilità finanziaria.

Gli ultimi eventi annunciati come traumatici per i mercati (dalla Brexit, all’elezione di Trump, al No al referendum costituzionale), con la loro sostanziale assenza di turbolenze importanti, sono un’ottima dimostrazione del fatto che l’economia funziona come gli economisti (e i loro manuali) ritengono faccia.

Aggiungiamo che, se ci fosse, un iniziale overshooting (eccesso di svalutazione, -> attesa di rivalutazione) del cambio potrebbe deprimere i tassi d’interesse e sostenere i prezzi (in lire) delle obbligazioni, delle azioni, e degli immobili, ed accentuare l’interesse degli investitori esteri per il nostro paese. Interesse peraltro attualmente assai scarso, se è vero che nel 2015 i flussi in entrata di investimenti esteri diretti sono stati, secondo la Banca mondiale, lo 0,4% del Pil, contro l’1,8% della Francia, l’,9% della Spagna, ecc. Ma giova ricordare che le tante stime disponibili della potenziale svalutazione italiana non collimano con quelle, secondo noi eccessive, proposte dall’autore, e che i bilanci degli operatori economici non hanno solo debiti, ma anche crediti definiti in valuta “forte”.

Certo, l’uscita unilaterale presenta diverse criticità, determinate appunto dalla necessità di ridenominare nella nuova valuta, come abbiamo visto, alcune categorie di debiti. Dobbiamo essere grati all’autore di averle correttamente individuate: articoli del genere fanno bene al dibattito, perché aiutano a circoscrivere e quantificare i problemi effettivamente rilevanti. Su questi e altri punti auspichiamo un confronto sereno e fattuale, scevro da quei catastrofismi che minano la credibilità della nostra scienza.

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Post-verità, potenti prepotenti nell’era delle bufale

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– B. dice una falsità

– che viene smentita da dati inconfutabili

– B. continua a ripeterla spudoratamente

Alla fine la gente non capisce più; né gl’interessa più sapere cosa è vero e cosa no; quel che conta, quel che vogliamo sapere, è quanti sono disposti a credere o a fingere di credere, schierandosi con B. Le menzogne, specie se spudorate (vedi Trump), sono segnali per interessi diffusi, ma determinati, in cerca di coalizione. Succede nella vita pubblica; e nelle migliori famiglie (quando in ballo ci sono le eredità).

Il mondo sviluppato, dopo il 1945, fu organizzato dando forza ai princìpi, più che agli apparati di propaganda: ed è cresciuto in libertà, pace e benessere. Ma oggi, se non condividiamo almeno alcuni fatti, il dialogo diventa impossibile. Prevalgono i rapporti di forza.

Da noi il mondo della post-verità dicono che è il frutto di 20 anni di egemonia televisiva di B. Altri dicono: è il prodotto di Internet; dove, protetti dall’anonimato, si possono diffondere “bufale” senza pagare dazio in perdita di reputazione. Beppe Grillo infine denuncia le bugie sparse dai media tradizionali; non casuali: alimentano “luoghi comuni” (“tutti lo dicono, dev’essere vero, lo dico anch’io”) e “ideologie”. Utili a chi? Prendiamo a esempio il Regno Unito.

Simon Parker ha scritto un bel libro sulla distruzione delle autonomie locali in Uk tramite l’austerità. Che questa non sia un’astrazione lo dimostrano i danni inflitti alla società inglese: la chiusura massiccia di librerie, asili, musei; la riduzione dei trasporti pubblici, della manutenzione stradale, dei servizi sanitari, dell’assistenza agli anziani e ai disabili, della prevenzione contro le inondazioni (nella foto: inondazione a Folkestone); l’aumento dei senza tetto, dei rischi di sommosse nelle carceri; ecc.

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Il silenzio, l’irrilevanza dei teatrini pesano, quanto le bufale. Non solo sui giornali c’è poco spazio per i problemi reali. C’è un’omissione più sottile: la separazione fra “narrazione politica” e mondo reale. Per cui alla fine nessun politico è responsabile dei problemi reali, nessuno ha meriti, nessuno ha competenze o soluzioni. Neppure la scienza: figuriamoci le scienze sociali.

In questo contesto la separazione delle pagine politiche dei giornali da quelle ‘sociali’ diventa pericolosa. Come scrive Chris Dillow, “presentando la politica come un ‘lui dice’, ‘lei dice’, la verità dei danni reali inflitti alla gente diventa sfumata; e la politica diventa un dibattito astratto… Per esempio George Osborne ha nascosto a lungo, con la sua retorica a favore della devolution, i tagli massicci inflitti agli enti locali, cioè, in altre parole, che era un centralista. I giornalisti della post-verità ascoltavano le sue parole invece di controllare i fatti, così gli hanno permesso di manipolare l’opinione pubblica”.

Il giornalismo ‘lui dice, lei dice’, continua Dillow, è classista: tende alla deferenza verso i potenti. Non solo questi hanno migliori capacità di P.R.; ma, “come osservò Adam Smith, c’è anche una diffusa ‘tendenza ad ammirare e quasi a idolatrare i ricchi e i potenti’ ”. Se poi i giornali si riempiono di dichiarazioni dei politici, la voce della gente comune (associazioni, esperti, think-thank) non trova spazio. In questo senso era interessante la posizione iniziale del Movimento 5 stelle sui talk show in TV: non partecipare (quasi mai). A condizione però di esprimere, in altre sedi, figure in grado di parlare con eccezionale conoscenza di causa dei problemi reali; insomma, di fare contro-informazione. Ma sembra che – a parte il blog di Grillo – il M5S non riesca molto in questo intento.

Il giornalismo della post-verità accentua la distanza fra la politica e la gente. Non a caso nei giorni prima del 4 dicembre pareva che il Sì avrebbe preso una valanga di voti; la stessa sorpresa avverrà con i referendum sul Jobs Act, e nessuno saprà perché. Uno spazio maggiore sui giornali alle condizioni di lavoro dei giovani, ai rapporti squilibrati fra datori e lavoratori, aiuterebbe a capire più che i dibattiti fra sostenitori del Sì e del No. Non mi riferisco (solo) alle inchieste, ma alla “narrazione politica”: incalzare i politici nel tempo, con la prima, la seconda domanda, poi la… centesima, su un problema concreto di cui si occupano.

Lo stesso vale per gli esperti, indipendenti o meno, cui giornali, Tv, e politica, in Italia, danno poco spazio: non i sapientoni generici, i tromboni; ma gente, anche giovane, che ha studiato un problema e ha un’idea da proporre. Spesso invece in Tv, a uno esperto di una cosa, si chiede tutt’altro. (Per la cronaca: ‘economista’ oggigiorno non significa nulla. Gli economisti sono iper-specializzati: quando vanno oltre il loro settore, esprimono opinioni da bar, né più né meno). Forse i direttori dei giornali dovrebbero chiedersi se la divisione fra ‘giornalisti politici (parlamentari)’ e gli altri produca buon giornalismo.

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L’ingovernabilità non è nelle cose: è solo nella nostra testa

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Si fa un gran discutere della possibile assenza di maggioranze nel prossimo Parlamento. Signora mia, tutta colpa del Legalicum, la nuova legge elettorale proporzionale. Come se l’Italia non avesse vissuto la sua stagione migliore proprio con la proporzionale (per non parlare della Germania). La confusione indotta nel popolo dai nostri leader populisti (ormai chi non lo è?), la retorica calcistica sui vincitori e vinti (in democrazia non ci sono vinti), le semplificazioni giornalistiche oscurano il fatto che è un merito della proporzionale costringere i partiti a formare coalizioni, trovare compromessi: che, certo, inibiscono… le intenzioni più estremiste, lesive dell’interesse di chi non partecipa al ristretto blocco di potere du jour.

Per esempio, se la Lega avesse il 55% dei parlamentari spaccherebbe l’Italia in due, farebbe leggi razziste; in coalizione con M5S non potrebbe. Ma forse, insieme ridurrebbero la corruzione, limiterebbero l’afflusso di immigrati, taglierebbero il nodo gordiano dell’euro, ecc. Il Pd ha tentato di approfittare del maggioritario illegale di questi anni per varare riforme antidemocratiche (bocciate dagli elettori e dalla Corte, ultimi contrappesi rimasti) simili a quelle di Berlusconi del 2006. Ma insieme, Pd, FI, e un partito minore, si controllerebbero a vicenda; e avrebbero meno interesse per operazioni di accentramento del potere (comunque condiviso). Sinistra Italiana potrebbe voler uscire da Wto e Nato; ma se fosse al governo con il Pd non potrebbe. Però limiterebbe la deriva neoliberista del Pd proteggendo i ceti sociali deboli. Insomma, che il Premier non possa fare tutto quel che vuole è l’essenza stessa della democrazia in senso moderno (occidentale, liberale; non nel senso “socialista”, “populista”, o giacobino).

caligolaIl prossimo sarà il primo Parlamento eletto in modo legale dopo 11 anni: ci siamo disabituati. Evidentemente la legalità democratica va stretta ai politici. Strano però che in questo allarmismo sull’ingovernabilità cada anche il Fatto Quotidiano, che della battaglia contro le riforme antidemocratiche ha fatto una linea editoriale e un punto d’onore. La democrazia è complicata, chi ha mai detto il contrario? Facile consegnarsi a un Caligola (“solo per 5 anni”); ma lo sviluppo dell’Occidente si fonda sulle sue complesse democrazie. Altra cosa è l’amministrazione pubblica, che dev’essere veloce ed univoca. Per restare alla metafora calcistica: la palla deve circolare velocemente; ma le regole del gioco non devono cambiare spesso, in fretta, e per decisione di pochi (neanche “con la globalizzazione”). I politici alimentano la confusione fra amministrazione e produzione di leggi.

Strano anche che il Sì abbia vinto il 4 dicembre scorso. Secondo i sondaggi, l’80% degli italiani vuole ‘un uomo forte al comando’. E fra il restante 20% molti ragionano così: ‘No, io non sono uno di quelli… A me va bene anche che governi un gruppo di gente. Purché sia di un partito solo: perché non voglio traccheggiamenti! Poi dopo 5 anni si decide se hanno fatto bene o no’. Che è proprio la logica della dittatura della maggioranza. La stessa pericolosa logica che prevale nell’Europa dell’euro, che ha calpestato la Grecia (ben oltre le sue colpe).

L’instabilità del Parlamento prossimo venturo non è ‘nelle cose’, non è oggettiva: è solo nella nostra testa. Ha origine nel lavaggio del cervello propinatoci dal ventennio berlusconiano, e dal Renzismo in profonda sintonia, sul piano inclinato che dalla lode al maggioritario arriva all’uomo forte e alla dittatura quinquennale di ristrette minoranze. Se anche due formazioni lontanissime – Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana – conquistassero il 45% dei seggi ciascuno, che succederebbe? Sarebbero obbligati a governare insieme, punto. Questa la richiesta degli elettori, questo il loro dovere: negoziare, evidenziare le aree comuni, implementarle. Scoprirebbero che su Sanità, Ambiente, euro, disoccupati, conti pubblici, e un’infinità di altri temi è possibile individuare buoni obiettivi comuni. E sugli immigrati, davvero FdI e SI sono inconciliabili? Ma va! Basta accordarsi, a metà strada o giù di lì. E questo vale anche per M5S.

Se il prossimo Parlamento sarà ingovernabile, la libera stampa ha il dovere di ricordare ai cittadini che sarà solo colpa di politici immaturi; che ricattano il paese: per far passare l’idea che si possa governare solo dando mani libere a chi fra loro arriva primo. È il sogno di tutti i politicanti del mondo. In realtà, in Parlamento tutti potranno allearsi con tutti. Si tratta di decidere con chi e per far cosa. Dagli obiettivi (e numeri) discende la scelta delle alleanze. Per me la priorità è l’euro (e la politica economica). A buon intenditor…

PS. Ciò non toglie che l’aver lasciato il paese con due leggi elettorali diverse per Camera e Senato è quasi un crimine, da parte di Renzi, a cui si dovrebbe rimediare prima del voto

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Massimo D’Alema, le domande che vorremmo fargli

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In una riunione precongressuale, Massimo D’Alema ha criticato Matteo Renzi sul Jobs Act: “Va bene cambiare, rinnovare, va bene tutto, ma i valori fondamentali… quelli dovrebbero rimanere”. Sulla legge elettorale lo ha ridicolizzato: “Voleva il maggioritario più spinto del mondo; la Consulta gliel’ha bocciato. Ma dice che ora la proporzionale è la stessa cosa!”. Dove voleva andare a parare Massimo? “E vuole votare, subito! Ma domando: con quale pro-get-to di governo!?”. Ineccepibile. Uno ha fretta di votare se ha un obiettivo politico in mente. Dopo le recenti batoste, in calo di consensi, con una legge elettorale proporzionale (al 40%, al premio di maggioranza, non ci arriverà mai) che ne ridurrà i parlamentari, a cosa mira Renzi: a un governo con Berlusconi e Alfano? Neppure ci riuscirà! “Io sono al-li-bi-to!”, scandisce D’Alema, politico intelligente.

Video di Manolo Lanaro

Ma i politici si fanno belli a confronto sempre e solo dei colleghi avversari, dei quali evidenziano incoerenze e punti deboli. Basti guardare l’avvilente vuoto che avanza: maestrine con la bacchetta in mano, moralisti, eterni adolescenti indignati. Ma anche il vecchio che torna non scherza. Come dimostra questa piccola intervista (immaginaria).

Lei ce l’ha un progetto politico, D’Alema? “Oh sì, io certo che ce l’ho, un bel PP. Lanciarmi nello spazio (politico lasciato) vuoto (da Renzi). Arriveremo al 15%! Come intende fare? Basta, miei cari, basta, richiamare i Valori! Quali valori? Quelli Eteerni, pardòn, eeeterni, pardòn, eeetciù! La solidarietà… ah… l’uguaglianza… l’onestà…”. E come intende declinarli nella crisi attuale? Non dovevano fare il Jobs Act. Non dovevano prendersela con la Costituzione. Bastava non fare nulla? Cercavo la Politica… Con la crisi, si corre in difesa. E cioè? La buona amministrazione! È da quando il socialismo ha vinto nel 1968-73. Con lei all’opposizione… Lei mi dà allergia! Da quando il comunismo ha perso, nel 1989, alla sinistra non rimane che difendere il welfare. E i ceti deboli.

Meglio che niente. Dunque lei vuole rinegoziare l’euro, o intende uscirne? L’euro? che c’entra?! Oh?! Gli economisti dicono che il fiscal compact genera lunghe fasi di elevata disoccupazione! Che, se la Bce agita gli spread, bisogna tagliare lo Stato sociale! Che – senza tassi di cambio – ogni perdita di competitività (relativa) un paese dell’euro la recupera solo svalutando il lavoro: i diritti, gli stipendi! C’è una corsa al ribasso iniziata dalla Germania nel 2004… Sicuro, riformare l’euro; come ho potuto dimenticarmene? Dobbiamo battere i pugni sul tavolo… Nessuna idea, nessuna proposta? Come Renzi… Noi li batteremmo di più e meglio. Secondo me lei s’illude e lo sa. La Germania non ha motivo di cambiare una situazione soverchiante. Perché illudere la gente? Qui la sinistra è impossibileRenzi ha dovuto fare il Jobs Act e tagliare i salari: almeno siamo sopravvissuti. Rimpiangeremo Renzi? Lei mi è leggermente antipatico.

Dove vuole andare a parare? Di uscire dall’euro non-se-ne-par-la! Sono stato comunista contro la Nato, Omc, Fmi, Bm, Ue: tutto l’assetto occidentale del Dopoguerra. C’ho messo 27 anni a costruirmi una credibilità ‘liberal’. Sono internazionalista (amico di Bill); dunque europeista. Con tanti amici della Figc, ho speso una vita a mediare… a bicamerare. Mi rifiuto di rompere con tutto questo! L’economia poi… a noi politici c’infastidisce: troppo complessa! Ma lei è il politico italiano più intelligente! Appunto… capisco che uscire dall’euro ha un costo iniziale elevato. I frutti arriverebbero due anni dopo: troppo tardi. Le ho detto che è antipatico?

Cambiamo tema. La democraziaNon esageri. Vuole davvero finalmente attuare la Costituzione? Anche l’art. 49? Gli italiani aspettano dal 1948. Non userei quel termine. Direi piuttosto: difendere. Fare argine contro ogni nuovo attacco. Oggi proporre nuove riforme istituzionali è impossibile! La libertà… La Libertà, concetto chiave! Per questo difendo l’Europa. Entro il 2017 bisognerà decidere se trasformare il fiscal compact in un trattato (definitivo) oppure cancellarlo. Che deve fare l’Italia? Dire ‘no!’ È un Patto stupido e recessivo, l’ha detto Prodi. L’austerità uccide la sinistra. Ma allora dovremo uscire dall’euro, perché gli spread ricominceranno a salire. Lei dice? Ma l’Italia non è un paese libero? La libertà l’abbiamo persa, senza rendercene conto, cedendo la sovranità monetaria alla Bce nel 2000. Allora, ci indigneremo.

E basta? Magari un giorno usciamo… e che sarà mai!? Perché, crede che Salvini e Grillo si stiano preparando? Nisba! Ma ho visto un sondaggio: il 47% degli italiani vorrebbe uscire. Aspettiamo che siano il 60%. Guardi, quando si dice “l’euro è una trappola”: si sta chiudendo su di noi. Ogni mese, altri 15 miliardi di Btp diventano non ridenominabili in nuova valuta: ciò vuol dire che aumenta il costo di uscita dall’euro. E in Europa si lavora per creare sempre nuovi meccanismi (unione bancaria Ue) “irreversibili, in caso di vittoria dei populisti”, parole loro. Perciò se si vuole rinegoziare o litigare, meglio farlo subito. Mi dicono che la crescita europea lentamente riprende… E’ vero: i meccanismi neoliberisti sono inefficienti ma persino loro dopo 9 anni cominciano a reagire. Allora le banche le salviamo? Sul filo del rasoio, stavolta, forse. E dunque, niente 60%: qual è il problema?

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Euro, restare o uscire

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Quali che siano le opinioni sulla rottamazione o meno dell’euro, il dibattito dovrebbe essere onesto e rispettoso. La prima regola è non attribuire agli interlocutori posizioni che non hanno. Prendiamo l’articolo del vice direttore de Il Fatto Quotidiano Stefano Feltri, che fa sue alcune osservazioni di Draghi.

Stefano attacca chi “sogna una moneta debole per affogare nell’inflazione problemi atavici”. Ma la moneta debole non serve certo ad affrontare i problemi atavici, bensì la crisi della domanda aggregata (la spesa delle famiglie) crollata nel 2008 e mai più ripresasi. Ora:

– che ci sia in Italia una depressione della domanda è fatto acclarato, riconosciuto anche dalla BCE. Che infatti ha orientato la politica monetaria in modo estremo al sostegno della domanda.

– che una crisi della domanda sia cosa grave, anche questo è fuori discussione. Se le famiglie, timorose del futuro, non comprano, le imprese non vendono, non ricavano, devono tagliare costi e produzione, licenziano, spaventano ancor più, in un circolo vizioso profondamente distruttivo. Difatti Draghi sta stampando trilioni di euro, che cerca di far arrivare alle famiglie (via prestiti bancari: un modo troppo indiretto!) per indurle a spendere.

– che una moneta debole aiuti la domanda, anche su questo non c’è dissenso possibile fra economisti (difatti Draghi ha pilotato l’euro al ribasso del 30% circa).

Uno può dire che l’euro offre altri benefici, ma non negare che la flessibilità dei cambi aiuterebbe l’economia a riprendersi. Secondo Stefano inoltre, chi vuole una moneta debole (come Draghi con l’euro?) ha poca sensibilità sociale: “senza curarsi della perdita di potere d’acquisto dei più indifesi a reddito fisso”. Ma i più indifesi sono i disoccupati; che beneficerebbero immediatamente di un rilancio degli ordinativi alle imprese.

Stefano definisce i no-euro: “imprenditori della paura”. Al contrario, lo scopo delle politiche di domanda è tranquillizzare le famiglie sul fatto che un minimo di domanda aggregata nel sistema è garantito: dunque non debbono avere eccessivi timori e possono ricominciare a spendere con fiducia. L’accusa vale piuttosto per quelli che annunciano inevitabili apocalissi in caso di scioglimento dell’euro.

Secondo Stefano e Draghi, “cancellare la moneta unica… significa invertire … quel faticoso tragitto che è cominciato mettendo in comune carbone e acciaio sessant’anni fa” perché l’integrazione è una storia coerente, non una sommatoria di tasselli indipendenti”. Non sono questi giochi di parole? Uno può cancellare la CECA (la comunità del carbone e dell’acciaio), come avvenne nel 1967, e integrarsi in altri settori (come avvenne in seguito)! Vale anche per l’euro.

Secondo Stefano e Draghi “per costruire un mercato unico la moneta unica era desiderabile se non addirittura essenziale”. Dunque, non era essenziale. Tanto è vero che il mercato unico europeo ha funzionato per decenni e bene senza l’euro. Era desiderabile? Solo ignorando tutti i guai che ha causato, che non erano stati previsti dagli eurocrati. “La paura era che, senza una moneta unica, i ripetuti cicli si svalutazioni avrebbero distorto le condizioni per una competizione equa e minato il mercato unico nel lungo periodo”. La paura… dunque non la realtà: stiamo parlando di un fantasma mai materializzatosi!

Il vertice della mistificazione arriva con la manipolazione di concetti economici complessi che possono confondere il lettore. Senza l’euro “Un’economia che avrebbe aumentato la sua produttività e competitività avrebbe potuto essere privata dei benefici che le spettavano, in termini di maggiori quote di mercato, a causa del deprezzamento della valuta nei Paesi concorrenti. E se alcuni paesi erano [fossero stati] pronti a praticare questa strategia predatoria ai danni dei vicini (beggar thy neighbour), perché gli altri avrebbero dovuto aprire a loro  in modo permanente i propri confini?”.

A questo proposito è bene sapere che:

– I tassi di cambio si dicono “predatori” o “beggar thy neighbour” quando sono sottovalutati rispetto all’equilibrio. Riallineare i cambi per riportarli in equilibrio non è predatorio, è il contrario.

L’equilibrio in questione è quello delle Partite Correnti della Bilancia dei Pagamenti. L’euro lo garantisce? I dati smentiscono senza appello questa tesi, implicita, di Stefano. Mai stati tanto gravi, gli squilibri, quanto con l’euro.

 

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Quali sono i benefici che “spettano a un’economia che aumenta la sua produttività e competitività”? Stefano confonde – come molti giornalisti – due concetti molto diversi. A un’economia in crescita (di produttività) “spettano” maggiori quote di mercato (non maggiori surplus!). Purché non utilizzi metodi predatori “beggar thy neighbour”, sinonimo di “crescita eccessiva di competitività”. (Chi non ha chiaro questo punto farebbe bene a studiare).

Tutto ciò significa una sola cosa: che a un aumento delle esportazioni, legittimo, deve corrispondere un aumento analogo delle importazioni. Altrimenti? Immaginate un mondo con due paesi: G e R, dove l’export di G cresce sempre, ma non l’import. In questo mondo mercantilista, R riceve sempre più prodotti di G ma, non pagandoli con altri beni (esportazioni), li paga firmando cambiali: finché il debito (di R verso G) diventa insostenibile! Ecco perché aumentare all’infinito la produttività (tenore di vita) è lecito; mentre aumentare la competitività all’infinito – svalutando la moneta, o abbassando i prezzi per unità di prodotto senza rivalutare – non lo è. Questa regola (Art.1 statuto FMI) nell’ordine internazionale del dopoguerra ha sostituito il vecchio mercantilismo guerrafondaio. Strano come il diritto sia rovesciato nel mondo di Stefano: convinto di combattere i nazionalismi, ne sposa la logica economica, vecchia di 100 anni.

Il grafico sopra mostra come nel 1988 a un eccesso di competitività della Germania si sia potuto rapidamente ovviare (rivalutando il marco); mentre dal 2004 la presenza dell’euro impedisce un ritorno all’equilibrio, infranto da un’inflazione tedesca illegalmente più bassa del 2% concordato in Europa. Ma anche se tutto fosse dovuto ai guadagni di produttività tedeschi, è folle immaginare cambi fissi. P. es. il grafico qui sotto mostra la rivalutazione dello Yen nel periodo in cui il Giappone ha guadagnato produttività:

 

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Continua Stefano: “Gli altri non sono imbecilli… eviteranno i comportamenti predatori ai loro danni… alzando barriere … o usando la nostra stessa leva monetaria”. Stefano sembra non sapere che anche il Giappone nel 1971-95 faceva del suo meglio per evitare l’apprezzamento dello Yen, ma senza moneta unica era impossibile impedirlo: ciò vale sempre quando qualcuno cerca di discostarsi troppo dall’equilibrio. Perciò un ritorno alla lira consentirebbe all’Italia solo di annullare il vantaggio competitivo predatorio accumulato dalla Germania. Ma non di accumulare a sua volta un vantaggio competitivo predatorio. Non è questo l’obiettivo di un ritorno alle monete nazionali di Francia Spagna Italia e Grecia. E se ci provassero non ci riuscirebbero. Nel 1970-99 nessuno mai ci provò.

Perciò non credo fondata l’alternativa di Stefano: “seguire la traiettoria di questi ultimi sessant’anni di costruzione dell’Europa o tornare, tra mille traumi, al continente ridotto alla fame dai suoi conflitti”. Né credo giusto chiamare chi ha idee diverse “predicatori di miracoli interessati soltanto a conquistarsi un po’ di visibilità e magari un seggio in qualche Parlamento”. Ci sono molti buoni argomenti a favore dell’euro (soprattutto: uscire dall’euro è difficile ma i politici sottovalutano la questione ): concentriamoci su quelli.

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La Germania esporta deflazione, depressione e disoccupazione. Perché?

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I giornali economici titolavano la settimana scorsa “Germania, mai così alto il surplus”: inteso come commerciale, o delle Partite Correnti. In termini macroeconomici è la differenza fra risparmi e investimenti. I tedeschi risparmiano, comprano poco, e vendono tanto (all’estero).

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Germania: surplus Partite Correnti, % del Pil

Il resto del mondo non ci sta. “Surplus war” titola l’Economist. “It’s Anschluss economics” scrive l’economista Marshall Auerbach. E Trump pensa a dazi doganali. Ce l’hanno tutti con loro, poverini: americani, cinesi, canadesi, inglesi, australiani…. Il fatto è, sono 8 anni che il G20 chiede a tedeschi e cinesi di rientrare: i cinesi lo hanno fatto; i tedeschi (e gli olandesi) dicono sempre che lo faranno, ma non lo fanno mai.

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Olanda: surplus Partite Correnti, % del Pil

Perché la questione dei surplus commerciali è così calda? In sintesi, i tedeschi esportano deflazione, depressione e disoccupazione, specie nell’Eurozona. Ovunque, le vendite tedesche sostituiscono quelle delle imprese locali. Le conseguenze economiche e sociali sono molto più gravi nella congiuntura post-2008 [N.d.A.: Chi risparmia tanto esporta… risparmio. Che fino al 2008 veniva “acquistato” per essere speso nei paesi in deficit da soggetti locali, alimentando i fatturati delle imprese locali. Insomma: anche se solo attraverso un complicato giro macroeconomico, le vendite delle imprese tedesche finivano per aggiungersi a quelle delle imprese locali, non erano sostitutive. Ma nella congiuntura attuale i risparmi sono eccessivi ovunque, e i risparmi tedeschi non servono: non vengono utilizzati. La “disoccupazione” non riguarda solo il fattore di produzione “lavoro”; ma anche il “capitale”. Perciò la produzione tedesca sostituisce quella locale].

Nel lungo termine inoltre, surplus eccessivi e prolungati alzano l’indebitamento delle altre nazioni, a livelli potenzialmente insostenibili.

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Per questi motivi, fino al 1945 ci si faceva la guerra – valutaria, commerciale, a volte militare – per aprire i mercati altrui (chiudendo i propri), e/o per abbassare i prezzi al di sotto di quelli degli altri. Il tutto per conquistare il fatidico surplus commerciale, e accumulare oro, o valuta estera (più o meno) pregiata, crediti; in una parola: potere. O, se preferite, mercantilismo.

Poi venne la Seconda guerra mondiale, la vittoria delle democrazie, l’impegno morale di Roosevelt e Churchill: “Mai più!”. Mai più le nazioni cercheranno di prevalere le une sulle altre, dominare, conquistare, accumulare potere, controllare i destini degli altri. Le nuove parole d’ordine erano libertà, democrazia, indipendenza delle nazioni, auto-determinazione dei popoli, pace, regole internazionali condivise. I nostri padri e nonni costruirono una rete di istituzioni per implementare il nuovo ordine internazionale anche economico. Al Fmi fu affidato il compito di controllare che nessuno abbassasse i prezzi (o il tasso di cambio) al di sotto di livelli compatibili con l’equilibrio dei saldi commerciali.

Nello Statuto Fmi si legge:

Articolo I: Il Fmi ha come scopo di promuovere… “balanced international trade”.
Articolo IV(1)(iii) IMF: “Each member state shall avoid manipulating exchange rates … in order [to] … gain an unfair competitive advantage over other members.” La “Decision on Bilateral Surveillance over Members’ Policies” chiarisce il concetto, a scanso di sofismi su cosa è ‘unfair’: il Subparagraph (ii) fa rif.to alla “excessive and prolonged official or quasi-official accumulation of foreign assets”; il subparagraph (v) fa esempi concreti di cosa si intenda con “fundamental exchange rate misalignments”, e il subparagraph (vi) fa rif.to ai “large and prolonged current account… surpluses”.

Poi venne l’euro.

L’euro, più ancora del gold standard, impedisce ai cambi (abrogati) di riequilibrare divari nel livello dei prezzi (competitività) che insorgono fra paesi dell’Eurozona. Per i mercantilisti è un’occasione unica!? Ma dai, in Europa non ci sono più! Perciò uniamo i nostri destini (monetari)! E così, tutti i paesi europei prima di entrare nell’euro dovettero convergere verso l’equilibrio. Si fissarono tassi di cambio d’ingresso equilibrati e “irrevocabili”. Per il futuro si decise un tasso d’inflazione comune – il 2% – a cui attenersi per mantenere l’equilibrio. [D’accordo, era una concezione sbagliata, non può funzionare: capitano sempre shock e divaricazioni nell’andamento della produttività che cambiano gli equilibri competitivi fra le nazioni; e devono essere compensate con analoghe forti variazioni dei cambi (prezzi): il caso del Giappone è emblematico, v. grafico. Però almeno era un tentativo (grossolanamente) approssimato].

Ma i difetti dell’euro sono stati aggravati dal mercantilismo predatorio. Alcune nazioni, zitte zitte, una volta entrate nell’euro, hanno abbassato il tasso d’inflazione al di sotto di quanto pattuito e, anno dopo anno, hanno accumulato vantaggi competitivi. L’inflazione tedesca dal 1998 ad oggi è stata dell’1,35%, contro il 2% pattuito e l’1,9% realizzato dagli altri: un differenziale di 0,5% l’anno, altro che convergenza! (A cui si è aggiunto un +0,2% all’anno di guadagni di produttività). Dopodiché, per impedire agli altri di recuperare, basta abbassare l’inflazione quando gli altri l’abbassano. Al resto ci pensa la crisi dei Pigs: l’euro va giù e i paesi in surplus, agganciati al carro, guadagnano competitività sul resto del mondo. Et voilà! I crediti annuali accumulati (dalla Germania, solo negli ultimi 10 anni, pari al Pil dell’Italia!) consentono di colonizzare i paesi in deficit, comprarne i ‘pezzi migliori’ a prezzi di saldo; e di avere un’influenza politica tale da determinare l’evoluzione e l’interpretazione delle regole del gioco e delle politiche economiche in Europa.

(Continua)

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‘L’euro aiuta i più poveri’? Non direi. La retorica del Pd non è più credibile

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Non sono un sostenitore dell’uscita dall’euro piuttosto di una sua rinegoziazione con l’Europa. Tuttavia continuo a pensare che un dibattito onesto e chiarificatore, privo non solo di “arroganza complottista e delegittimante” ma anche di terrorismo psicologico, sia un valore sociale meritevole di tutela. Perciò l’articolo di Filippo Taddei – “responsabile economico del Pd” – del 18 febbraio scorso, in difesa della permanenza dell’Italia nell’euro merita una appropriata risposta. Esso presenta due argomenti.

Il primo argomento è che – in caso di uscita dall’euro – una svalutazione del 20% della nuova moneta causerebbe il “crollo dei salari reali”. Ammettendo l’eccessiva svalutazione ipotizzata, considerata la percentuale di estero nei consumi italiani – che subirebbero dei rincari -, il “crollo” dei salari reali può essere meccanicamente stimato al 5,7%. Ma non tutti i produttori esteri sul mercato italiano alzerebbero i prezzi del 20%: gli economisti stimano, e solo nel lungo termine, rincari fino al 62% della svalutazione: in tal caso i salari calerebbero solo del 3,5%. Infine, gli aggiustamenti delle scelte di consumo – dai prodotti esteri a quelli nazionali – limiterebbero la riduzione dei salari reali a un 3% una tantum (1,5% se la svalutazione sarà del 10%). La svalutazione ripartisce il costo dell’aggiustamento fra tutti i fattori produttivi.

In cambio, come ironizza (?) Taddei, “le nostre esportazioni diventerebbero competitive… e le nostre aziende potrebbero vendere facilmente in tutto il mondo, creando ricchezza e posti di lavoro”. Con alcune conseguenze. Calerebbe la disoccupazione: i giovani troverebbero più facilmente lavoro; scenderebbe il rischio di perderlo (per chi ce l’ha). Il miglioramento delle aspettative darebbe gambe alla ripresa economica. Aumenterebbero gli introiti fiscali, arrestando il debito pubblico e i tagli ai servizi sociali primari (sanità, istruzione, ecc.) avviati da Monti. La ricomposizione dell’attuale squilibrio fra domanda e offerta di lavoro determinerebbe, nel tempo, una pressione al rialzo sui salari ed una loro crescita sostenibile.

Questo scenario va confrontato con l’aggiustamento dell’economia italiana (spagnola, greca, portoghese, francese) necessario nell’euro. Che è sotto gli occhi di tutti. Incentrato tutto sulla deflazione salariale. Realizzata grazie alla “distruzione di domanda” (Monti), alla perdurante elevata disoccupazione, e a leggi che riducono le difese dei lavoratori. Questa è la via, nell’euro. Comporta un’enorme inefficienza macroeconomica: l’industria italiana ha perso il 25% della capacità produttiva, a fronte di piccoli immaginari guadagni di produttività (di ciò che sopravvive). Essa inoltre destabilizza le banche. Genera un’estrema difficoltà a mettere il debito pubblico su un sentiero decrescente. Genera infine una corsa al ribasso di salari, standard ambientali e lavorativi, fra i paesi europei (aggravata dal mercantilismo tedesco). Che nessuna globalizzazione aveva mai provocato – nonostante gli allarmi pelosi contro i prodotti cinesi – grazie ai cambi fluttuanti. Dovrebbero rifletterci i vari Emiliano, D’Alema e chi non si sente collocato su valori di sinistra nel Pd di Taddei: nessuna sinistra sopravvive nell’euro di Maastricht.

La tesi secondo cui “ogni svalutazione genera sempre inflazione” è invece facilmente smentita ricordando che fra il 1991 e il 1994 – all’epoca della grande svalutazione della lira – l’inflazione passò dal 6,2%, prima della svalutazione, al 5,3%, al 4,6%, al 4,1%, per toccare un minimo di 1,7% nel 1999. L’inflazione è un processo generalizzato e continuo di aumento dei prezzi: non un piccolo aumento una tantum di alcuni prodotti energetici. Perché si determini occorre: (a) una forte pressione della domanda sull’offerta nei mercati dei beni e/o del lavoro; (b) una indicizzazione dei salari. Nessuna di queste due condizioni è oggi presente. Purtroppo, Taddei utilizza unicamente i macro-modelli neoclassici che si fondano sull’assunto della piena occupazione permanente, inadeguati alla fase che viviamo.

Il secondo argomento di Taddei contro l’uscita dall’euro è che: “Abbandonare una moneta significa [che]… i conti correnti e i titoli in euro vengono ridenominati forzosamente in una moneta debole… Tutti cercano di svuotare il conto in banca e trasferirlo altrove per proteggerne il valore… Le persone non possono accedere più al proprio denaro… il sistema bancario del paese collasserebbe…”. In realtà, i conti correnti non verrebbero mai ri-denominati in lire: sarebbe demenziale per chiunque privare la nazione di un tesoro valutario simile. Lo stesso vale per la grandissima maggioranza dei titoli. La nuova moneta invece si aggiungerebbe all’euro, sostituendolo gradualmente (come avvenne nel 2001 con l’euro).

La retorica della “difesa dei più poveri” del Pd non è più credibile nell’attuale assetto. Neppure quella dell’europeismo, che è in crisi da quando c’è l’euro. Agli amici del Pd dico: troviamo strade più autentiche ed innovative per difendere valori così importanti.

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Un anti-Macron in Italia? Ecco le caratteristiche con cui potrebbe vincere

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Se l’altissimo numero di astenuti e schede bianche – oltre ad avere una propria valenza – indica una tiepidezza generale degli elettori francesi nei confronti di Emmanuel Macron e Marine Le Pen, allora gran parte della Francia non è rappresentata o è mal rappresentata dai due sfidanti, e ieri ha votato ‘contro’ piuttosto che ‘per’Marine Le Pen si era candidata contro l’euro, il cui malfunzionamento è sotto gli occhi di tutti. Ed effettivamente le classi popolari francesi hanno sacrificato agli idoli di Maastricht più dell’accettabile.

Perciò Le Pen aveva un’autentica possibilità: poteva coalizzare tanti ambienti diversi, anche gente con sentimenti di sinistra o, perché no, di centro. Voglio credere che una parte delle classi medie francesi sia contrario alle diseguaglianze; e capisca perché e per come l’euro affossa – oltre alle classi popolari – anche le intere periferie dell’Unione monetaria: un argomento che abbiamo discusso molte volte.  

Eurobarometro, novembre 2016

Ma Le Pen non si fermava all’euro. Voleva uscire da tutto: dall’Ue, dalla Nato, da alcune regole del Wto e dell’Onu (non la prima). In sostanza, a ben vedere rifiutava l’intero ordine internazionale uscito dalla Seconda Guerra Mondiale sotto la spinta dei liberal democratici come Churchill, Roosevelt, De Gaulle e Adenauer. Non per niente Le Pen sprizzava simpatia per Trump e Putin!

Quanto ai migranti, va bene denunciare – da destra – l’incompetenza e la debolezza della gestione europea. Ma le posizioni più estreme della Le Pen mal si conciliavano con l’uscita dall’euro in funzione del rilancio occupazionale: è proprio in quello scenario che i migranti diventano utili e preziosi (viceversa, l’accoglienza eccessiva prospettata da Macron mal si concilia con l’euro e la disoccupazione).

E tuttavia, rendendosi conto che la Francia non si conquista con una proposta apertamente autoritaria, Marine si era “data ‘na ripulita” (come dicono Roma). Aveva rotto con il padre neofascista, moderava i toni e gli argomenti. Ma il lupo perde il pelo, non il vizio. E così negli ultimi due mesi non ha resistito, e ha commesso due evitabili errori: ha attaccato il Papa sui migranti, alienandosi i cattolici di centro-destra. Ed ha difeso la Francia di Vichy: ricordando così agli elettori da dove viene lei.

Dall’altra parte c’era un candidato filo-euro, espressione dell’élite eurocratica, in sostanziale continuità con le scadenti e screditate politiche di Hollande (come non ha mancato di rinfacciargli Le Pen). Emmanuel Macron però ha una competenza economica importante, e mostra almeno di voler un pochino attenuare i difetti delle politiche economiche europee. Questo è bastato.

Il dato politico di fondo è che – in Francia, in Italia, e altrove – manca un’offerta politica chiaramente europeista e al tempo stesso avversa all’euro (di Maastricht), che prospetti finalmente un’Europa funzionale: integrata solo là dove conviene (commercio, migranti e difesa inclusi), e dietro precise garanzie (come avviene in ogni singola nazione grazie alle Costituzioni). È mai possibile che i no-euro e i no-Maastricht – nel generoso tentativo di salvare l’Europa dal declino e dalla dittatura delle maggioranze (di paesi) – debbano puntare su personaggi impresentabili, populisti, autoritari, incompetenti, demagoghi senza arte né parte che vagheggiano referendum sull’euro impossibili?

Secondo me, in Italia ad esempio, una start-up politica come quella di Macron (fondata solo 6 mesi fa) a supporto di una proposta liberaldemocratica moderata ed europeista ma per l’uscita dall’euro, né sovranistafederalista, allineata con i ‘Comitati del NO’ (al referendum del 4/12/2016) sull’attuazione della Costituzione e della democrazia, guidata magari da qualche politico di mestiere ma capace fare appello alle competenze della società civile e a personale politico nuovo, potrebbe avere immediato successo. Ma finché Maastricht avrà come avversari i vari Le Pen d’Europa, non ci sarà partita. Ieri almeno, l’euro ha vinto per k.o. tecnico.

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Autobus e ritardi, a Roma non Memovo

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L’altro ieri uscendo di casa. Verifico sul cellulare quando passerà il mio autobus: fra 12 minuti. Ho il tempo di prendere una spremuta al bar. Orologio in mano, ci metto 5 minuti; esco dal bar e vedo con orrore … il mio autobus laggiù, già in arrivo alla fermata. Corro. Faccio segnali al conducente: “Aspettami!”. Lo prendo giusto in tempo.

Ieri mattina, la mia app (RomaBus Memovo) indica un tempo d’attesa più lungo: 16 minuti. Troppo: vado a piedi! Ma appena allontanato, sento alle mie spalle un rumore lontano: è lui, sornione. Altra corsa, altri segnali al conducente, altra sudata, altro sospiro di sollievo. È un periodo fortunato. Non va sempre così. Quante volte mi sono incamminato, magari dopo lunghe attese, credendo alla mia app, solo per vedermi sfilare l’autobus davanti; quante volte ho scelto erroneamente di prendere l’autobus più scomodo e che mi lascia più lontano da casa; ecc.

Oggi la app annuncia 7 minuti, ma l’autobus passa subito. Salgo e continuo a fissare il cellulare, che non cambia idea per tutto il tragitto: questo autobus passerà di qui fra 7 minuti. Un ragazzo mi guarda con commiserazione: “No, guardi, è inaffidabile: io ho smesso di guardarlo!”. Il fatto è che qualche volta ti dice anche la verità… perciò non sai mai se credergli! Per la cronaca, i dati a tutte le app e alle bacheche luminose delle fermate sono forniti dalla società Roma Servizi per la Mobilità S.r.l.: applausi.

Secondo l’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici di Roma Capitale i passeggeri trasportati dai mezzi pubblici di superficie a Roma sono 973 milioni all’anno. (Uno che prende l’autobus 2 volte al giorno viene contato come due passeggeri). Se stimiamo in 5 minuti il tempo perso ogni giorno (30 ore l’anno) da ogni “passeggero” a causa di questi malfunzionamenti, ne ricaviamo 222.140 ore perse, pari circa 29.600 giornate di lavoro. Come se ogni giorno 29.600 lavoratori venissero sequestrati. Ok, non tutti lavorano; e il tempo perso dai ‘lavoratori’ può essere in realtà sottratto al tempo libero. Ma anche il tempo libero ha un valore. Dunque il ‘conto’ è salato. I “passeggeri” degli autobus romani, secondo le mie stime (grossolane) producono mediamente (chi niente chi tanto) valore aggiunto per 22,5 euro l’ora. La perdita è dunque 22,5 x h.7,5 x 29.600 = 5 milioni di euro ogni giorno, che potremmo salomonicamente ripartire fra “Pil potenziale” perso e ‘benessere’ (valore del tempo libero) perso dai cittadini. E lasciamo perdere l’incazzatura quotidiana.

Cos’è questo ‘Pil potenziale’? Pil che non si materializza. Con la crisi di domanda (la gente non spende) che c’è in giro, un aumento di produzione dei romani oggi resterebbe invenduto, o farebbe aumentare l’invenduto di altre imprese, non romane. Perciò la perdita di Pil per ora non è reale: la perdita è tutta di tempo libero. Resta il fatto che la gente perde un sacco di tempo inutilmente. Date le moderne tecnologie, non ci vorrebbe molto per sistemare questa cosa: solo un po’ di attenzione al punto di vista dell’utente.

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G7, dietro lo scontro Merkel-Trump c’è la ribellione della Germania all’ordine mondiale post-1945

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La ‘rottura’ fra Merkel e Trump al G7 di Taormina viene analizzata in questi giorni in tutto il mondo. Non è la prima volta che Germania e USA hanno interessi divergenti; è la prima volta dal 1945 che i loro leader si mandano pubblicamente a quel paese. È il punto di arrivo di un lungo processo.

La rottura vera è avvenuta sul commercio internazionale, in riferimento al quale Trump ha detto: “I tedeschi sono cattivi, molto cattivi, toccando corde sensibili. Lo stereotipo del ‘tedesco cattivo’ risale al 1945, e allude alle guerre di aggressione e ai genocidi commessi in quel periodo. Ma i tedeschi hanno riflettuto più di chiunque altro su molti “errori” del passato; e ritengono – a ragione – di essere una nazione profondamente democratica, priva di ambizioni militari, e con una visione ambientalista più illuminata di quella americana.

Ciò detto, le politiche commerciali (in senso ampio) depressive della Germania ed i surplus senza precedenti, l’accumulo di riserve, crediti, e titoli esteri, l’inflazione media 2000-16 all’1,35% (lontana dal 2% concordato), il deliberato mercantilismo stanno facendo strame delle regole di pacifica convivenza (economica) nate intorno al 1945, che persino i cinesi rispettano. Basta ricordare il fondamentale Art. I dell’Imf in difesa del “balanced international trade”; e l’Art.IV(1)(iii) che vieta ogni: “unfair competitive advantage over other members”; dove “unfair” significa ogni “excessive and prolonged official or quasi-official accumulation of foreign assets” o “large and prolonged current account… surpluses”. La Germania per la prima volta si ribella all’ordine mondiale post-1945.

Merkel cela il proprio isolamento internazionale nascondendosi dietro “l’Europa”, che pure più di altri soffre le politiche tedesche. O dietro i sogni federalisti degli europei, non privi di un perché. Gioca sul lato folkloristico di Trump, dei protagonisti del Brexit, dei populisti europei, sulla scarsa credibilità dei greci… E manda un messaggio: “Il resto del mondo è isolato!”. Ma l’Europa sta perdendo l’appoggio di Usa e Uk: chi è davvero estremista e chi moderato in questo gioco? La ribellione tedesca non è basata su alcun principio etico, solo sul “faccio come mi pare”, figlio del crescente potere nella zona Euro, di istituzioni e regole spacciate per neutrali e in realtà profondamente asimmetriche. I tedeschi hanno riflettuto molto sul passato: forse non su tutto. Man mano che i ricordi del 1945 impallidiscono emerge l’insofferenza per le regole, la tendenza egemonica che in Europa fece vincere molte battaglie e perdere molte guerre.

Ma Merkel è un politico razionale: calcola sempre le sue mosse e le sue dichiarazioni. Se oggi ‘sovra-reagisce’ a Trump, non è tanto per motivi legati al rapporto con Trump, ma perché gli USA (e il resto del mondo) mettono in discussione l’ideologia con cui la Germania domina l’area dell’euro. Un autarca non può tollerare di essere sbeffeggiato, proprio sui punti sacri all’origine del suo potere: “Il mio surplus non è un problema! Il mio surplus è frutto del mio lavoro. Ne ho diritto!“. Similmente, Merkel nell’agosto del 2014 bloccò immediatamente Draghi – che a Jackson Hole, di fronte ai suoi professori americani, aveva cominciato a dire la verità sulla crisi europea: non è stata causata dai troppi debiti pubblici o dalla stasi nella produttività di alcuni paesi, ma dagli errori di politica economica imposti dai Trattati dell’Euro. “Taci o salti”, fu il messaggio.

L’ideologia è il primo collante dell’egemonia: ricompatta gli ‘utili idioti’ che ci credono, e offre un alibi a chi – per interesse o per forza – finge di crederci. Per salvarla, Merkel deve ‘rompere’ con l’America, deve accentuare la repressione del dissenso e stringere i nodi scorsoi nell’Eurozona. O dovrà rinunciare all’egemonia. Ma questo la Germania non è in grado di farlo: riproporre un’Euro(pa) di pari dignità fuori di Maastricht. Le superstizioni di Maastricht, per quanto confutate ripetutamente dalla Storia drammatica di questi anni, sono il meccanismo auto-assolutorio dei tedeschi. Perciò sono state servite ai e-lettori tedeschi con accenti moralistici e la compattezza tipiche di quel paese. Ora sono diventate parte dell’identità nazionale. Perciò non saranno corrette (per quanto molti amici vogliano illudersi) se non con la forza (speriamo stavolta non militare).

Quest’ideologia di dominio da noi si rovescia e diventa ideologia di sottomissione. “Con i nostri politici corrotti e incompetenti, il popolo ignorante che non vota le riforme buone e giuste di Renzi, il debito pubblico alle stelle, la Pubblica amministrazione piena di fannulloni, non saremo mai in grado di governarci” … E quindi di essere liberi (ma questo rimane sottinteso).

Quanto all’Europa federale che ci preparano Merkel & friends, come ho spiegato su Aspenia – in assenza di una vera Costituzione europea o Trattato (con relativi check and balances, specie sulla BCE) che stabilisca i diritti inalienabili dei popoli/nazioni europei a cui capita di trovarsi in minoranza – emergerà un super stato leviathan dove la maggioranza filo-tedesca (i paesi potenti e in surplus come la Germania hanno più potere di coalizione) ridurrà in briciole chi oserà sfidarla, e terrà per il collare gli altri. ‘Vae victis’ sarà il motto di chi penserà di noi: “Oderint dum metuant”.

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Sud Sudan e povertà, quella gente non è lontana come sembra

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Non so come dirvelo, cari lettori. Ma la verità è che da soli non possiamo cavarcela. In nessuna impresa. La civiltà è cresciuta: sopravvive e prospera, grazie a quanto “gli altri” fanno per noi, e noi per gli altri. Vale per gli uomini sulla luna, il benessere, le scarpe che portiamo, il concerto di Vasco…

Né ci sarebbe gioia – consolazione nelle malattie o nella morte – senza lo stupore ricorrente dell’amicizia e dell’amore. Dare o ricevere, allora, è un mero punto “pratico”, dettato dalle particolari circostanze e dalle necessità del momento. Non può essere sempre simultaneo, come in un mercato!

Perciò guardate in questo breve filmato il reportage sul Sud Sudan. Quella gente non è lontana come sembra: è vicinissima. Grazie a chi ha costruito un ponte, a noi basta un click per diventare angeli, per sorvolare gli oceani e atterrare, dare una mano, ripartire, nel cuore occhi che ci sorridono: “A buon rendere!”. È una vera magia, un’opportunità per tutti: non lasciatevela scappare.

Lo dice anche Leonard Cohen in “Please don’t pass me by” (1970) e “Show me the place” (2012).

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Renzi o Monti? Chi ha fatto davvero aumentare la povertà

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C’è polemica fra Monti e Renzi su chi abbia fatto aumentare la povertà assoluta in Italia fino a quasi cinque milioni di persone. Il Fatto quotidiano dà spazio a Monti e critica Renzi: “Al governo c’era lui, ma la colpa è di chi c’era prima. Un’analisi sciorinata con una certa dose di faciloneria a uso dei social network, visto che quelli in questione sono fenomeni causati da una molteplicità di fattori che agiscono sul lungo periodo, la cui corretta interpretazione dovrebbe essere frutto un’osservazione altrettanto estesa nel tempo e che richiederebbero un’analisi più approfondita da parte del leader di quello che resta uno dei maggiori partiti del Paese”.

Se si tratta di fenomeni di lungo periodo, avrebbe ragione Renzi ad attribuire al passato la responsabilità dei trend odierni. Ma partiamo da fatti e dati affinché il lettore, innanzitutto, possa farsi una sua opinione.

Un individuo è “assolutamente povero” se al mese spende cifre inferiori a quelle incluse tra i 550 euro (se vive in un paesino del sud) e i 820 euro (se vive a Milano), e non può permettersi un paniere minimo di beni. Per contestualizzare: nel 1861 il reddito medio pro capite era pari a circa 190 (attuali) euro al mese. I poveri del 2017 sono soprattutto disoccupati, operai, famiglie numerose (quindi molti bambini poveri), gente con titoli di studio bassi (licenza media o meno), che vive in periferia, stranieri. Non c’è dubbio: la crisi l’hanno subita soprattutto i ceti deboli.

Come si vede nel grafico sopra, la povertà ha cominciato la sua salita all’inizio del 2008, subito dopo la prima recessione del 2007. Anche nel 2012 ha reagito subito al crollo del Pil (“Stiamo sottraendo domanda aggregata” dichiarava giulivo Monti). Possiamo dire, quindi, che – almeno in parte – la povertà reagisce entro un anno all’andamento del Pil (occupazione), e alle “liberalizzazioni” del mercato del lavoro.

Per tali motivi, possiamo affermare che a Monti dobbiamo la più grande impennata della povertà della Storia d’Italia in tempo di pace. Fu corresponsabile della crisi finanziaria, in solido con Trichet & Bce/ Berlusconi & Tremonti, rifiutando per mesi l’impostazione (corretta) degli ultimi giorni del governo Berlusconi. Il quale ai primi di Novembre del 2011 propose confusamente all’Europa un “Whatever it takes” offrendo in cambio una dignitosa variante delle future operazioni monetarie, le Outright Monetary transaction (Omt). Monti inoltre aggravò la crisi occupazionale con una non necessaria eccessiva austerità, che schiantò l’economia italiana – in maniera (per lui) imprevista – e gonfiò il rapporto debito/Pil.

Quanto a Renzi, osserviamo nel grafico che – dopo il suo avvento nel 2014 – nel 2015/16 c’è stata una ripresa della povertà. Colpa di Monti? C’è davvero una componente “inerziale” nella povertà, che reagisce in ritardo agli sviluppi dell’economia? È possibile: se uno perde il lavoro (con Monti), è probabile che abbia dei risparmi, grazie ai quali non cade subito in povertà. D’altra parte, se l’economia riprende (con Renzi), quelli che stanno per entrare in povertà (per colpa di Monti) dovrebbero riuscire a evitarlo, oppure il loro ingresso in povertà dovrebbe essere compensato dall’uscita di altri.

Il grafico sotto può essere interpretato, con un po’ di sforzo, come un debole indizio dell’esistenza dell’inerzia: l’intensità della povertà è in continuo aumento. (Misura quanto in percentuale la spesa media delle famiglie definite povere è al di sotto della soglia di povertà).

In conclusione, il bicchiere di Monti è vuoto. Si può discutere se quello di Renzi sia mezzo vuoto o mezzo pieno. Peccato che lui affermi sia pieno: non ha ridotto la povertà (anzi). Renzi l’audace nel 2014 sembrava l’uomo giusto per rottamare le pessime politiche economiche che hanno impoverito l’Italia; ma è stato imbrigliato da Napolitano, che gli ha imposto una linea economica “ortodossa” e gli ha messo a fianco un guardiano (Padoan). Ora è tardi per riciclarsi come leader alternativo: too little, too late! A meno di non avere molto più coraggio, competenza, intelligenza e sottigliezza di quanto non stia dimostrando.

Monti e Renzi hanno più ragione quando parlano l’uno dell’altro, che di se stessi. Tutti gli altri hanno l’onere di spiegare perché farebbero meglio.

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Pil, Bes e Def: come (non) misurare la ricchezza di una nazione

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Il Pil, si sa, è un indicatore imperfetto del benessere di una nazione (Giuliano Resce, 2016). Perché?

1. Non considera il patrimonio: se un terremoto rade al suolo una città, il Pil non ne tiene conto. Anzi, la ricostruzione fa salire il Pil.
2. Non considera com’è distribuita la ricchezza.
3. Non considera come si distribuisce il reddito, né il grado di mobilità sociale.
4. Non detrae i costi sociali (danni ambientali, esaurimento delle risorse naturali, ecc.) delle attività produttive.
5. Include “beni” potenzialmente negativi come armi, tabacco, droghe, prostituzione, pubblicità. Stai male e chiami un medico? il Pil sale.
6. Non valuta il lavoro di casalinghe e volontari, l’agricoltura di sussistenza, e tutta la produzione non venduta sul mercato. Sposi la domestica? il Pil scende.
7. E’ difficile includere nel Pil i miglioramenti qualitativi. Eppure, le tv oggi sono migliori che nel 1980.
8. Calcola il valore dei servizi prodotti dalla pubblica amministrazione al prezzo di costo. L’assunzione clientelare di un nullafacente fa salire il Pil.

Nono, non dà valore a tutto ciò che non è “economico”: ma – per fare qualche esempio – carcerati omicidi suicidi alcolisti disoccupati speranza di vita libertà sono anch’essi indicatori dello Stato di salute, anche economico, di una società.

Questi e altri noti limiti del Pil non vengono corretti perché è difficile farlo. Ciononostante, il Pil resta l’indicatore di benessere e sviluppo più usato: “il meno peggio”. Ma gli indicatori distorcono: percezioni, valutazioni, politiche. Un governo valutato in base all’andamento del Pil trascurerà il resto. Di qui, i movimenti per la “decrescita felice” per “andare oltre il Pil”. Ora, una legge del 2016, fortemente voluta dal senatore Marcon, impone al Mef di inserire un indice di Benessere equo e sostenibile (Bes) nel Documento di economia e finanza (Def), mettendo così “al centro l’Uomo e non solo il suo conto in banca”.

Ma qui iniziano i problemi. Innanzitutto, l’Istat rende disponibili 130 indicatori di benessere. Quali mettiamo nel Bes? Il governo ne ha cooptati solo 12, nessuno “sintetico” o “composito” (combinazione di più sotto-indicatori): altrimenti non si capisce più cosa c’è dentro, e il messaggio politico non passa. Due di tipo tradizionale: il “Reddito disponibile pro capite” (simile al Pil). E il “tasso di partecipazione al mercato del lavoro” (più lavori, più aumenta il tuo benessere).

Poi, un “Indice di disuguaglianza del reddito disponibile”; due indicatori ambientali – “Emissioni di co2 e altri gas clima alteranti”; e “Tasso di abusivismo edilizio” -; uno sulla pubblica amministrazione, “Efficienza della Giustizia Civile”) ; uno di tipo sanitario forward looking (“Eccesso di peso corporeo”); uno sulla discriminazione di genere, e altri ancora. La lista evidentemente è del tutto arbitraria; però l’assenza di un indicatore della ricchezza è clamorosa.

Secondo problema: quanto deve pesare ciascun indicatore nel Bes? Irrisolvibile (Aldo Femia, 2017). Come confrontare pere e asparagi. Perciò l’agognato indice Bes in quanto tale non vedrà mai la luce: restano 12 indicatori, che viaggiano ognuno per conto suo.

Terzo problema: il salto dall’intento descrittivo a quello normativo. Inserendo il Bes nel Def il legislatore, oltre a “accendere un faro” mediatico su obiettivi sociali importanti, ha voluto che le politiche governative fossero disegnate e valutate per influenzare queste variabili. Perciò, “per ciascuno dei quattro indicatori, già introdotti sperimentalmente quest’anno, è necessario fornire uno scenario a politiche vigenti (tendenziale) e uno scenario che inglobi le politiche introdotte nel Def (programmatico)”.

In questa tabella del Def 2017, l’andamento programmatico migliora sempre quello spontaneo. Che valore hanno queste stime? Al Mef non manca l’impegno: “La metodologia seguita è di natura mista e calibrata sulle peculiarità di ciascun indicatore. Per le previsioni tendenziali è stato utilizzato un approccio prevalentemente econometrico con modelli di microsimulazione agganciati ai modelli macroeconomici utilizzati dal Mef e a un approccio simulativo per gli scenari programmatici”.

I 12 indicatori di Bes sono stati proposti al Parlamento, che dovrà esprimersi entro il 30 luglio. Altrimenti, varrà il silenzio-assenso (misteri della democrazia italiana), e i 12 verranno istituzionalizzati – a prescindere da eventuali cambi di governo – in modo da osservare negli anni come evolvono. Si vuole arrivare a valutare in futuro tutti i provvedimenti in base ai presunti effetti su di loro. Applausi.

Ma tutto ciò è pericoloso e distorsivo: il Parlamento dovrebbe respingerlo. Indurrà i governi a sovra-realizzare “i magnifici 12” a scapito del resto.

(Continua su Economia e politica )

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Le false partenze della sinistra/1

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La sinistra, si sa, ha perso l’anima. Non da oggi, non solo in Italia. Gli anziani ancora ricordano antichi ideali: democrazia, partecipazione, uguaglianza, giustizia sociale, diritti e dignità sul posto di lavoro, il salario, lo Stato sociale (pensioni, sanità, istruzione), il Progresso (scientifico), la piena occupazione… la questione meridionale… Echi lontani del “900 invecchiati male, linguaggi ammuffiti, quasi… offese alla modernità! Già, la “modernità” … chi la definisce?

Nell’Europa continentale i grandi partiti storici, socialdemocratici, e di centrosinistra, hanno avuto una strana involuzione: non attaccano le disuguaglianze bensì i sindacati, le Costituzioni, la partecipazione (va bene… ma solo ogni 5 anni), il lavoro (con la “flessibilità” e l’austerità recessiva), tagliano con fervore scuola, università, ricerca, pensioni, ospedali – facendo calare la produttività -, poi sacrificano l’occupazione per stimolare la “produttività”: senza successo, secondo tradizione liberista. L’involuzione non riguarda solo i grandi partiti socialdemocratici, bensì tutti i partiti in qualche modo di sinistra che vanno al governo: vedi Tsipras.

Se la sinistra non fa più il suo mestiere, non può essere una sorpresa se gli elettori europei non vanno a votare (tanto “sono tutti uguali”), la quota di salari e stipendi nel reddito nazionale cala, l’ingiustizia sociale cresce. E anche in Italia (vedi grafico: dati da Chartbook of Economic inequality) crescono la disuguaglianza generale (Gini), la concentrazione della ricchezza, la povertà; (in un periodo di forte recessione, diventa tragedia); il Mezzogiorno conosce una desertificazione demografica e industriale nient’affatto ineluttabile; e a Roma i quartieri che votano Pd (2016) sono ormai soprattutto i Parioli (quasi il 40%) e il centro storico!

Ma gli effetti della crisi della sinistra investono oltre ai ceti popolari, anche le classi medie: nel grafico sotto, il reddito medio degli italiani (in migliaia di euro l’anno) dal 2007 in poi è sceso. La sinistra è necessaria al paese per affrontare certi passaggi, in particolare quelli attuali; così come la destra lo è in altre circostanze. Dunque ci sarebbe spazio per un’alleanza fra classi popolari e ceto medio, se solo i leader fossero capaci di individuarne i contorni e proporla al paese.

L’illusione fatale, assai diffusa, è che il problema abbia origine nel “tradimento” di alcuni dirigenti, come Renzi. Anche i Romani pensavano al tradimento ogni volta che perdevano una battaglia. Mai a forze storiche, a cause profonde. Solo incidenti di percorso. Perciò rimediare è semplice: “Basta, miei cari, basta… che ci vada il poeta, dietro al banco! Di qui il pullulare di iniziative, candidature, scissioni, la corsa al partito nuovo, a scavalcare compagni a sinistra, gli appelli all’unità e però a scrivere “il programma dal basso”, dove non manca nessuno dei tradizionali miti della sinistra: il classico libro dei sogni. Osservano al collettivo napoletano Je so’ pazzo: “Come al solito si dice cosa si dovrebbe fare ma non il come, non si danno esempi, non si cerca il metodo … E così tutto non può che ridursi alla solita petizione d’intenti, al conseguente cartello elettorale che nel migliore dei casi potrà esprimere una rappresentanza parlamentare che si limiterà a fare testimonianza”.

Illusi! Stranamente, l’“incidente della Storia” si ripete in tutta l’Europa continentale … Le politiche di Monti le han votate pure gli odierni scissionisti… E il popolo non sembra interessato agli appelli delle vaste classi dirigenti della sinistra. Sentiamo l’on. Carlo Galli: “Il nuovo soggetto politico che si forma a sinistra del Pd è nella condizione di «stato nascente», ovvero è indeterminato e aperto a molte soluzioni. L’altra caratteristica dello stato nascente, ovvero la ricchezza esplosiva d’energia, è invece assente”. Qualcosa non torna! “Dare risposta ai problemi veri del Paese … sotto i vincoli dell’euro … è un’impresa titanica che implica la ripoliticizzazione della società e la riculturalizzazione della politica…”. Già… Ma poi si torna a parlare politichese.

C’è un elefante nella stanza, che tutti fingono di non vedere.

Riusciranno gli inciucioni della sinistra ad accorgersi che un misterioso elefante li calpesta? Scopriranno chi è, come fa? Chiameranno in soccorso l’Uomo Ragno? Lo saprete leggendo la prossima puntata.

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Le false partenze della sinistra /2 – Perché la globalizzazione è solo una scusa

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Francia, Italia, Spagna, Germania, Grecia: appena arriva al governo, la sinistra europea adotta politiche neoliberiste di destra. Crescono diseguaglianze, povertà, disoccupazione, insicurezza, debiti. La base, tradita, smette di votare (o vota la protesta anti-sistema), spingendo vieppiù i partiti “di sinistra” a competere “al centro”. La causa sembra essere un misterioso elefante (Questi avvenimenti sono stati narrati nel post Le false partenze della sinistra/1).

Chi è l’elefante? La globalizzazione, “G”, scrivono molti lettori, è la causa principale dello sconvolgimento attuale. C’è consenso sul fatto che – crescendo le disuguaglianze – le ragioni della sinistra socialista europea sono oggi più forti di 30 o 40 anni fa. Ma purtroppo, la guerra commerciale globale obbligherebbe le imprese a ridurre i salari o a delocalizzare. Alcuni vorrebbero contrastare la presunta spinta al ribasso (su salari, welfare, diritti) di “G” con la politica, ma lo ritengono impossibile, perché il campo di gioco dell’economia (delle multinazionali) è ormai il mercato mondiale, mentre gli Stati hanno un campo d’azione ridotto. Perciò, vagheggiano la nascita di grandi Stati, pena la definitiva scomparsa della sinistra. Altri infine vorrebbero domare “G” con l’astuzia della conoscenza, ma denunciano l’assenza di un armamentario teorico moderno per poter rovesciare le sorti del confronto; invocano la nascita di una “vera” nuova scienza economica alternativa al liberismo – come a suo tempo lo furono il marxismo e il keynesismo – poiché al momento contributi pur brillanti come quelli di Piketty e Rifkin non sono ancora confluiti in un tal nuovo sistema.

Vera o falsa, la tesi per cui “La globalizzazione paralizza la sinistra” è pericolosissima, perché ha come corollario: “Uccidiamo la globalizzazione”; ponendo la sinistra contro la modernità, la libertà, l’economia di mercato. Ma, intanto, per sopravvivere bisogna accettare che “tutti i diritti che abbiamo conquistato, ai nuovi, in nome di un mercato globale spietato, saranno tolti”. Musica per le destre e le élite, comoda giustificazione per le sinistre che si snaturano. È quindi importante appurare se è vera.

Ultimamente, la globalizzazione è un po’ appannata, ma sta sempre lì.

Per fortuna, la tesi sopra illustrata è una leggenda metropolitana. La globalizzazione non impedisce minimamente alla sinistra di perseguire gli antichi ideali. Anzi, le facilita il compito. Ne consegue che la dimensione degli Stati non c’entra nulla con la possibilità di garantire diritti, salari equi, welfare. Quanto alla teoria economica, Rifkin e Picketty studiano problemi microeconomici o di equilibrio parziale, mentre la questione che stiamo analizzando è macroeconomica e di equilibrio generale. Esiste una teoria economica moderna che conferma quanto asserisco? Sì, è prevalente nei manuali, si chiama post-keynesiana. L’errore è pensare al Keynesismo come a un’analisi dell’economia che si è fermata al 1936: in realtà ha continuato a svilupparsi (per esempio con Stiglitz, Krugman, tutti i consiglieri di Obama, gli attuali presidenti della Federal reserve, Bank of Japan, Bank of China) anche se è stata bandita dall’eurozona. La spiegazione l’ho data in un vecchio post, che qui riassumo.

Nella competizione commerciale globale non conta se i salari cinesi siano 10 o 30 volte più bassi dei nostri, conta invece il costo (del lavoro) per unità di prodotto (Clup). Se l’operaio cinese viene pagato dieci dollari al giorno e l’italiano 100 dollari, ma il cinese produce un solo paio di scarpe al giorno (costo al paio: 10$ + materiali), mentre un operaio italiano produce 25 identiche paia di scarpe al giorno (costo al paio: 100/25= 4$ + materiali), le scarpe italiane sono più competitive. Il punto difficile da afferrare è che nell’economia globale i Clup sono sempre simili nelle diverse aree del mondo. Pertanto, l’ossessione per la “competitività – giusta a livello d’impresa – è infondata (salvo in particolari condizioni cicliche) a livello macro globale. Difatti, alcuni “meccanismi automatici” dell’economia – più o meno velocemente – erodono i divari di competitività quando si formano.

Il meccanismo più efficace sono i cambi. Se per esempio Trump abolisse le norme di sicurezza sul lavoro e ambientali, e dimezzasse i salari americani, i prezzi in Usa scenderebbero e gli Usa diventerebbero iper-competitivi. In molti compreremmo un biglietto low cost per New York (per fare incetta); le nostre importazioni salirebbero, le vendite delle nostre imprese crollerebbero. Ma c’è un “ma”. Prima di prendere l’aereo, passeremo in banca a comprare i dollari necessari per gli acquisti a New York. Facendolo in tanti, il dollaro comincerebbe a salire, salire, fino a quando? Fino a quando il divario di competitività sarebbe eliminato (c’è da considerare che i cambi oscillano, ma è un’altra questione). Più ampio il divario competitivo, più forte la reazione contraria che si scatena. (Dazi = effetti simili).

Quando il dollaro raggiungerà il suo nuovo equilibrio, lascerà alcuni settori (imprese) Usa più competitivi dei nostri, ma altrettanti settori (imprese) dove noi siamo più competitivi: solo così acquisti e vendite di dollari si riequilibrano. (Non ripeto la dimostrazione per gli investimenti esteri). Ergo, nella globalizzazione, un paese può fissare i suoi diritti sociali in modo autonomo.

La regolamentazione (ad esempio sulla sicurezza sul lavoro) alza i costi delle imprese: ciò riduce produzione e redditi? Sì, ma questo costo non viene dalla globalizzazione: è la quota di valore aggiunto usata per “pagare” gli standard di sicurezza, che non può essere distribuito in salari e profitti. La parte più difficile da spiegare ( più facile con la matematica) è che la globalizzazione non solo non causa, ma addirittura riduce questo costo. La regolamentazione incide sempre più su un settore (B) e meno su un altro (A). Se inizialmente la produzione nazionale (numero di pezzi) è come illustrato di seguito:
A=100 B=100 TOT =200 (disponibili per il consumo, economia chiusa)

E dopo la regolamentazione di B si ha:
A=110 B=30 TOT=140 (disponibile per il consumo, economia chiusa)

Con la globalizzazione, hp di prezzo estero e costi di trasporto normali, si avrà:
A=150 di cui 40 export
B= 60 di cui 30 import

Totale disponibile per il consumo: A=110 B=60 TOT=170 >140

Ma è proprio vero che la “competitività” a livello di paesi nel lungo termine non è una questione seria, bensì un’allucinazione collettiva? Esistono riscontri? Sì, e sono decisivi: le bilance commerciali (il vero indicatore della competitività). I paesi a basso costo del lavoro non hanno una particolare tendenza a essere in surplus commerciale, e viceversa.

Riuscirà la sinistra a (evitare ancora di) scoprire chi è l’elefante? Lo saprete leggendo la prossima puntata.

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Le false partenze della sinistra/3 – L’elefante nella stanza

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Dalle Alpi alle Termopili, dal Manzanarre al Reno, le Sinistre vanno al governo e adottano politiche di destra. Cresce perciò l’ingiustizia sociale, e la protesta anti-sistema. Di chi la colpa? Non della globalizzazione! C’è un elefante nella stanza… [Questi avvenimenti sono stati narrati nei post “Le false partenze della sinistra 1 e 2”].

Cosa impedisce alla sinistra europea di fare il suo mestiere quando va al governo? Non la globalizzazione: è solo economia di mercato (internazionale). Né l’Amerika: è con noi (come i mercati globali) da almeno due secoli, durante i quali la sinistra è cresciuta e ha cambiato il mondo. L’Urss non c’è più? D’accordo, ma non c’era neppure nel 1820-1920. Né il successivo progresso sociale è stato determinato solo dal comunismo: non in Germania, ad esempio, dove han fatto tutto sinistra cattolica e socialisti; non negli Usa, dove ha fatto tutto la sinistra liberale. No! L’elefante nella stanza è l’euro di Maastricht: moneta fondata su istituzioni e regole non solo disfunzionali, ma anche ostili ai ceti deboli e ai lavoratori. Un problema enorme che i leader fingono di non vedere.

Non so dov’erano e cosa leggevano in questi anni i vecchi e nuovi politici che – solo per indignarsi contro il Renzismo (o il Populismo) – pensano di potersi offrire a noi come guide verso il sol dell’avvenire. So però che, al di là delle buone intenzioni, vendono fumo. Non è possibile “rilanciare la sinistra” senza fare i conti con i meccanismi economici che provocano la deriva liberista. Uno di questi – l’oggetto di questo articolo – è la competitività.

In un post precedente ho sostenuto che la competizione commerciale fra nazioni è in genere un falso problema, che non obbliga affatto a una “corsa al ribasso” su salari, diritti, welfare, sicurezza sul lavoro ecc. Ciò grazie ai tassi di cambio, che riequilibrano costantemente le differenze competitive internazionali, “svalutando” o “rivalutando” indistintamente tutti i fattori produttivi di una nazione. Ma l’Eurozona è per definizione priva di tassi di cambio: e questo cambia tutto. La Francia è un caso emblematico.

La tabella presenta in (a) e (b) una misura (inversa) dell’andamento della competitività: il CLUP = (Salario – Produttività). Come si vede in (c) e (d), in Francia negli ultimi 20 anni la crescita della produttività è stata forse persino superiore a quella della Germania. E il livello medio della produttività (grafico di Picketty) è oggi identico nei due paesi (55 euro l’ora; 42 in Italia).

Nonostante ciò, ai fini della competitività internazionale, la Germania nel 1999-2008 ha più che compensato la minore crescita della produttività agendo sul costo del lavoro e mettendo così fuori mercato la Francia. Questa politica è evidenziata in (e): la crescita salariale in Germania (+1,6% l’anno) è nettamente inferiore non solo a quella francese (3,6%), ma anche alla crescita della produttività tedesca, pari a 2,4% in (c): di essa si appropriano i profitti e le rendite, che in parte la “cedono” per alimentare la competitività (e i fatturati), spingendo l’inflazione nettamente sotto i livelli concordati in Europa. E così la Germania guadagna, col. (a), anno dopo anno 0,6% di competitività (di costo e prezzo) sulla Francia [-0,7 -(-0,1) = -0,6] provocando infine una crisi oltre Reno (10% di disoccupati, debito/Pil in crescita, ecc.). La Francia paga il rifiuto di “svalutare il lavoro” del primo decennio di vigenza dell’euro. Non per nulla le politiche mercantiliste vengono dette “beggar thy neighbour”, frega il tuo vicino.

I lavoratori tedeschi, pur difendendosi molto meglio dei colleghi di altri paesi – almeno hanno evitato la crisi occupazionale – hanno pagato il prezzo delle politiche mercantiliste: la quota di PIL che va a remunerare il Lavoro è scesa di tre punti. E l’ingiustizia sociale, anche in Germania, cresce (grafico).

Con cambi flessibili o regolabili tutto ciò non è e non sarebbe mai successo, o sarebbe presto risolto: un paese che esporta assai più di quanto importa, genera sui mercati valutari un eccesso di domanda per la propria valuta, che apprezza il cambio e annulla il vantaggio competitivo. In tutto il mondo quindi, i Clup tendono a convergere: la globalizzazione non impone una race to the bottom (gara al ribasso) sui salari e le tutele sociali.

Nell’Eurozona invece, in assenza dei cambi, entrano in funzione altri meccanismi automatici di mercato che – molto lentamente – anch’essi tendono a riequilibrare la competitività fra paesi membri. Essi agiscono sul livello generale dei prezzi: nei paesi in surplus tende a salire, e nei paesi in deficit (relativamente) a scendere. Questa cosiddetta “svalutazione interna” è il meccanismo di aggiustamento competitivo previsto dai padri dell’euro. Qual è la sua natura?

(Continua qui).

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Grazie, Oettinger

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Dobbiamo essere grati al tedesco Gunther Oettinger (CDU) per aver detto apertamente una spiacevole verità: “I mercati… insegneranno agli italiani a non votare per i partiti populisti”. I veri amici sono quelli che ti mettono di fronte la realtà. La verità ci farà liberi. Angela Merkel aveva ricordato il giorno prima: “Anche con la Grecia di Tsipras all’inizio fu difficile, poi ci accordammo”. Poi… dopo che gli spread avevano piegato i greci ribelli, e consegnato al Consiglio Europeo un Primo Ministro greco in ginocchio. Piangendo implorò pietà per il suo popolo, e salvò il posto, ma dovette ingoiare condizioni durissime. Una scena che ricorda quando Marco Aurelio (179) o Costanzo II (369) ricevevano i capi germani sconfitti.

Il significato delle parole di Oettinger è questo. “Gli italiani non sono un popolo libero, sono in una gabbia; e quanto più si lanciano contro le sbarre, tanto più si fanno male; i colpi che si infliggono sono il migliore modo per indurli a non riprovarci più”. Rimuovere questa semplice realtà per noi è disastroso. Tutti i politici italiani hanno protestato, ma con motivazioni diverse. Per il Pd (e alcuni eurocrati): “Sono dichiarazioni soprattutto stupide”. Ovvero: “molto meglio evitare, oltre il danno, anche le beffe”, per non aizzare gli italiani, complicando il lavoro ai secondini.  

Matteo Salvini invece mischia indignazione e sorpresa. Pochi giorni prima – al “No” di Mattarella su Savona – aveva detto: “Oggi ho scoperto che gli italiani non sono liberi”. Oggi? Dov’era in tutti questi anni? Dov’era nel luglio 2015, quando il Ministro delle Finanze tedesco Schaeuble disse al Consiglio Europeo che il trattamento riservato alla Grecia era “un avvertimento a tutti i populisti europei”? In realtà, Oettinger rende più difficile credere che un “governo del cambiamento” da un giorno all’altro porterà facilmente, basta volerlo, l’Italia fuori dalla gabbia degli spread: e magari anche tutti in vacanza al mare.

Ha protestato anche Mattarella: ha fatto benissimo a difendere l’onore dei suoi concittadini. Ma qui emerge una contraddizione fatale: sua, e di quei filo-euro che chiamano Di Maio e Salvini (e Savona) “bugiardi”. Il Capo dello Stato, spiegando perché non autorizzava la nascita del governo gialloverde, ha sostenuto che se costoro volessero uscire dall’euro (e dal ricatto spread) devono dirlo apertamente in campagna elettorale. Sembra una cosa buona giusta e democratica… Ma il Presidente ha anche detto di voler bloccare Savona non per la linea politica  – facessero quel che volessero, per carità: infatti non aveva obiezioni su Giorgetti –, ma perché Savona aveva detto apertamente in passato che forse, in certe condizioni, sarebbe meglio uscire dall’euro; e ciò avrebbe provocato una disastrosa crisi finanziaria. Ma delle due l’una: bisogna dirlo apertamente o no?

La risposta è la seconda che ho detto. Ammesso che prepari un’evasione, avverti i carcerieri? In nessun paese del mondo, in regime di cambi fissi (come l’eurozona) i ministri delle Finanze annunciano la (ri-)s-valutazione in anticipo: anzi negano spudoratamente fino a un minuto prima, guai se non lo facessero! D’altronde, se la nostra è una democrazia rappresentativa (non diretta) è perché certe decisioni non possono né devono essere prese dall’elettorato: perché troppo complesse (sull’euro ormai siamo alla guerra di religione fra zeloti privi di nozioni macroeconomiche e poco interessati a ragionare), o perché soffrono, come in questo caso, di time inconsistency. Perciò ci affidiamo a rappresentanti senza vincolo di mandato, che in campagna elettorale comunicano degli orientamenti generali ma poi si riservano di decidere in libertà, in base alle circostanze, come raggiungere gli obiettivi. E l’euro è un mezzo, non è un fine.

Mattarella certo sa di trovarsi in questa fatale contraddizione. Sa che i politici non hanno l’obbligo di annunciare prima quel che faranno, senza che per questo li si accusi di slealtà. Sa che le suggestioni degli estremisti filo-euro che premono su di lui dietro le quinte (“uscire dall’euro è vietato dalla Costituzione”, altra cosa è dire “non ci conviene”), oltre che inaccettabili, rischiano di dividere gli italiani sull’unico terreno che ancora li unisce: la Costituzione. Sa che la tutela costituzionale del “risparmio”, cui si è pure appigliato per bloccare i pentaleghisti, non coincide necessariamente con l’euro (per quel che contano i fatti, vedi grafico); e comunque la sua tutela va contemperata con quella di altri valori, quali l’occupazione o la democrazia.

Non resti fermo e astutamente vago su argomenti usati a caldo ma – a una più attenta analisi – impropri. Salvini e Di Maio non dovrebbero accettare di formare un governo senza prima chiarire bene con Mattarella ciò che un governo e un Parlamento in carica possono o non possono fare. Per non trovarsi domani, come già oggi, con il governo che porta il paese in mezzo a un guado, e un Presidente che lo blocca lì, sotto il tiro degli indiani Spread.

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Il Pd è morto perché ha perso i suoi ideali

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Il Pd ha perso i suoi elettori perché ha perso i suoi ideali, le associazioni di riferimento, gli intellettuali di riferimento, le sue basi culturali. Li ha persi nome dei suoi stessi malintesi ideali, per stare giustamente al passo (nel modo sbagliato, ingannati dal neoliberismo) con la modernità.

È nato come il “partito della Costituzione”. Ma poi ha litigato con la stragrande maggioranza dei costituzionalisti italiani, persino con i partigiani. Lo ha fatto varando, con una maggioranza parlamentare eletta in modo incostituzionale, una modifica in senso autoritario (certamente non in senso liberale) di un terzo della Costituzione. Ma l’Italia non ha bisogno di più leggi, in fretta. Ha bisogno di leggi migliori, fatte con attenzione, da parlamentari e istituzioni veramente sotto il controllo di chi detiene la sovranità. L’esatto contrario dell’idea di Renzi (e, prima di lui, gli altri nipotini di Veltroni: Letta, ecc.).

Ha ignorato o manipolato la domanda di moralizzazione del sistema politico (ridurre gli stipendi dei parlamentari) riducendola a una questione di costi (ridurre il numero dei parlamentari). A una domanda di “più democrazia” ha risposto: “riduciamo le istituzioni di controllo della democrazia”. La Rai e la pubblica amministrazione sono ancora politicizzate, perpetuando una soffocante “dittatura della mediocrità” premessa di ogni corruzione.

È nato come il “partito della giustizia sociale”, ma ha poi litigato con tutti gli economisti neo-keynesiani, e con il sindacato, perché ha preferito l’euro e il neoliberismo di Maastricht. A causa delle pressioni innescate dall’euro ha dovuto varare fra l’altro:

– il “pareggio in bilancio” in Costituzione, sancendo la rinuncia alle classiche politiche keynesiane di contrasto alla disoccupazione;

– il Jobs Act, perché in assenza di tassi di cambio aggiustabili, e di meccanismi alternativi (rifiutati dalla Germania) l’aggiustamento di eventuali divaricazioni competitive non può che farsi attraverso la precarizzazione e il deprezzamento del lavoro.

Ha così presieduto a un’impennata senza precedenti e tuttora irrisolta della prima causa di povertà e disagio sociale – la disoccupazione -, e a una diffusa precarizzazione del lavoro.

La disoccupazione a sua volta ha reso esplosiva la “questione migranti”, e lasciato alle classi popolari l’unica opzione di una “guerra fra poveri” tipicamente di destra.

È nato come il partito delle primarie aperte, il partito dell’articolo 49 della Costituzione (che imporrebbe la democrazia nei partiti). Ma ha poi organizzato primarie truffaldine, che un Pietro Scoppola (lo storico indipendente della sinistra cattolica, “garante” del Pd nella fase di gestazione) quasi piangente, nella primavera del 2007, fu sul punto di denunciare pubblicamente. Grazie a molteplici norme capziose, chi non è un maggiorente del partito e non controlla cordate non ha nessuna possibilità – non di vincere, ma – di partecipare in più del 10-12% dei collegi. Inoltre, nell’epoca dei social media, quando i giovani e la gente più che mai vogliono partecipare, i circoli del Pd sono stati trattati come meri centri di raccolta del consenso, privati di qualsiasi potere, titolari di una partecipazione meramente formale. Né alle associazioni ambientaliste, antimafia, per i dd.uu., ecc., sono stati riservati posti in Direzione nazionale.

La soluzione è un grande Congresso di rifondazione, preceduto da quattro grandi Conferenze programmatiche su “Democrazia”, “Economia e Classi popolari”, “I migranti e noi”, “Il Partito: democrazia e partecipazione”, dove il ruolo primario sia affidato agli intellettuali per la discussione, e alla base del partito per il voto (anche online?) delle tesi contrapposte. Si discuta apertamente:

1. di come moralizzare e democratizzare (nella sostanza) il sistema politico;

2. dell’euro, di Maastricht, e del perché la sinistra necessariamente muore in un simile contesto di regole economico-finanziarie; di come si possa superare questa situazione, non escludendo a priori alcuna opzione;

3. di come limitare l’immigrazione quando da noi c’è crisi, e di come integrare chi accogliamo;

4. di come attivare una partecipazione diretta dei circoli nelle scelte del partito; di come passare dalla cooptazione della classe politica alla democrazia delle pari opportunità per tutti.

Poiché il Pd è ormai largamente renzizzato, lo scontro politico-identitario vedrà probabilmente protagonista un gruppo neoliberale, che si strutturerà intorno all’ex segretario e a Calenda. Poi vi sarà, intorno al bravo Zingaretti, uno stormo di struzzi ex-Pci che non hanno capito la profondità del cambiamento necessario: quelli che pensano di risolvere andando a “battere i pugni a Bruxelles” (sai che risate i signori dello spread). L’unica speranza per il Pd è emerga un gruppo socialdemocratico neokeynesiano e neo-roosveltiano critico dell’eurozona, anticasta, innestato di giovani e teste pensanti, capaci di trovare strade nuove.

P.s.: Oggi su Repubblica Ezio Mauro scrive che gli italiani sono disposti a “scambiare la libertà con la protezione”. Non ha capito: gli italiani le vogliono entrambe!

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