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Channel: PierGiorgio Gawronski – Il Fatto Quotidiano

Usa 2020, come la democrazia americana ha sconfitto il suo presidente

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[ENGLISH VERSION]

Lo scrutinio dei voti non è ancora finito. Ma è ormai chiaro che nelle elezioni presidenziali americane in molti Stati si è verificato un serrato testa a testa. Attualmente il vantaggio di Joe Biden risulta essere in Wisconsin 0,6 punti percentuali, in Georgia 0,1, in Pennsylvania 0,6, in Arizona 0,4. Anche quattro anni fa le elezioni furono molto combattute. Ha scritto Dan Hopkins, un analista politico americano: “In un Paese con oltre 150 milioni di elettori, entrambe le elezioni sembrano essere state decise da poche decine di migliaia di voti in una manciata di Stati chiave”.

Ma questa non è l’unica similitudine tra il 2016 e il 2020. Un’altra è la netta divergenza fra sondaggi e risultati reali. Addirittura – secondo Charles Franklin, direttore della Marquette Law School Poll – la divergenza questa volta sarebbe ancora più grave: “Invece di essere limitato a qualche Stato, quest’anno l’errore dei sondaggi sembra sia stato diffuso”, ha detto. “E non trovo Stati nei quali l’errore dei sondaggi sia stato a favore di Trump”.

Secondo l’analista Nate Silver, il giorno prima delle elezioni i sondaggi prevedevano una netta vittoria dei democratici al Congresso, e un vantaggio di Biden di ben 8 punti percentuali nel voto popolare nazionale. Secondo le medie calcolate da RealClearPolitics, Biden era dato in vantaggio di 6,7 punti percentuali in Wisconsin, e di quasi un punto in Florida, dove – secondo le ultime proiezioni della NBC – Donald Trump ha vinto con 3,4 punti di vantaggio.

È ancora presto per analizzare i motivi che hanno indotto i sondaggisti a sottovalutare ancora una volta, in modo così netto, la forza elettorale di Trump. Ma è già possibile affermare che l’errore sistematico dei sondaggi, auto-correlato da uno Stato all’altro, può aver provocato la sconfitta di Trump. In modo davvero imprevedibile.

La letteratura empirica ha più volte dimostrato che il voto anticipato (specialmente quello postale) aumenta, non poco, la partecipazione al voto (per esempio: Kaplan 2020; Kaplan & Yuan, 2020; Projectvote 2015). Il Presidente Trump, tuttavia, ha fatto il possibile per scoraggiare i suoi elettori dal votare anticipatamente: in tal modo ha probabilmente limitato senza volerlo la loro partecipazione al voto.

Perché Trump avrebbe adottato questa strategia? È probabile che, di fronte a sondaggi tanto negativi, il Presidente, sottovalutando le sue possibilità di vittoria, abbia deciso di provare a “rubare” l’elezione. A tale scopo, avrebbe concentrato il voto dei suoi elettori il 3 novembre, nel giorno delle elezioni, con l’idea di tentare poi di annullare, tramite manovre legali, il voto anticipato (andato quasi tutto a Biden). Ma si tratta di un tentativo disperato, probabilmente destinato al fallimento.

Se fosse stato rispettoso della democrazia americana, nonostante il pessimismo dei sondaggi, Trump sarebbe stato probabilmente rieletto. Invece, la democrazia – attaccata dal Presidente – ha prevalso, e si è vendicata.

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Coronavirus, in Italia manca la cultura del merito: così la politica si mostra inadeguata

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Nel suo ultimo post, Roberto De Vogli si domanda chi sono i “competenti” in grado di parlare autorevolmente della crisi sanitaria. Il tema è cruciale: “ascoltare gli scienziati… significa non solo salvare migliaia di vite umane, ma anche l’economia”. Purtroppo, dopo undici mesi di pandemia, il nostro sistema politico-mediatico ancora non distingue i medici (virologi, immunologi, clinici), che curano i malati, dagli epidemiologi (matematici, statistici, scienziati sociali), che studiano il diffondersi dell’epidemia. Con qualche eccezione (Report, PiazzaPulita), i talk show continuano a fare domande sbagliate a esperti sbagliati. Nella fatale confusione che ne deriva la classe politica cela la sua inadeguatezza.

Il primo equivoco è l’equazione “camici bianchi = esperti”. Esperti di cosa? I medici studiano l’effetto del virus sul corpo umano, non i fattori che ne facilitano la propagazione. Ma il Ministro Roberto Speranza ha riempito il Comitato Tecnico Scientifico di clinici: Locatelli (pediatra ematologo), Bernabei (geriatra), ecc. E i talk show chiedono lumi – non sul virus, sulla pandemia! – a Bassetti, Zangrillo, Gismondi… che non saprebbero maneggiare un modello epidemiologico neanche con l’aiuto di Manitù.

Ciò detto, credo che abbia l’autorevolezza per parlare di pandemia una platea più vasta dei soli “esperti in salute globale” (epidemiologi) invocati da De Vogli. Tanto per cominciare, un semplice criterio meritocratico suggerirebbe di emarginare chi finora le ha sbagliate tutte, e di valorizzare chi le ha azzeccate tutte. È un criterio fattuale, diretto. Non sembra difficile da applicare. Ma a giudicare da quel che succede alla Regione Calabria, a “Otto e Mezzo”, o a “L’aria che tira”, la meritocrazia non abita qui.

Quanto ai cv (indicatore indiretto), molti economisti, ricercatori, scienziati hanno competenze matematiche, statistiche, sociali tali per cui – se studiano il problema – possono intervenire utilmente nel dibattito. Ma la conoscenza migliore nasce dalle catene del “sapere condiviso”.

Idealmente: 1. medici/biologi → 2. epidemiologi → 3. economisti → 4. politici, dove gli esperti a sinistra producono output che sono input per quelli a destra. Gli epidemiologi (2) inseriscono nei loro modelli le caratteristiche del virus rilevate da (1) medici e biologi (per esempio, la trasmissione asintomatica del Covid-19), assieme ad altri parametri: età e densità della popolazione, comportamenti sociali, efficacia delle reti territoriali di medicina preventiva, inquinamento atmosferico, clima, mobilità, modalità del trasporto pubblico, ecc. Stimano la forza dei vari canali di contagio, e i diversi scenari epidemici al variare delle politiche.

Ma i modelli tratti dai manuali di epidemiologia sono spesso poco realistici; né stimano i costi delle diverse politiche. Gli economisti (3) perciò li adattano un po’ (alla realtà), usano gli output come input nei modelli macroeconomici, e selezionano, a parità di impatto sanitario, le strategie meno costose. Le segnalano infine ai politici (4) per le scelte finali (che includono altre valutazioni).

Cosa c’è dietro la freccetta che va dagli “economisti” (scienziati sociali) ai “politici”? Come avviene la trasmissione del sapere dalla società (università, centri studio, riviste, media) alla politica? Qualche settimana fa, pranzando con il senatore Alberto Bagnai, egli mi ha confessato di non trovare il tempo “neppure per incontrare i parlamentari leghisti”, dovendo saltare da una commissione o evento all’altro: figuriamoci se la politica ha il tempo di studiare.

Quanto al governo, la gente vive nell’illusione che un Ministro non dev’essere competente, tanto nei ministeri “ci sono i tecnici” che supportano le scelte. In realtà in Italia questo supporto è debolissimo.

Primo: i “tecnici governativi” sono in realtà spesso dirigenti con competenze medie, senza formazione post-laurea di alto livello, la sola in grado di fare la differenza. Le assunzioni, se non avvengono per raccomandazione, riguardano quasi sempre dei giuristi: attenti alla forma, ma poco incisivi nel merito. Le carriere hanno logiche simili. E così arriva il Piano Pandemico obsoleto, solo sulla carta, che costringe l’Italia a improvvisare sul Covid.

In secondo luogo, i “competenti” sono specializzati: perciò è impensabile che due, tre tecnici (salvo il Mef) di alto livello possano “coprire” la varietà di problematiche che un ministero deve affrontare.

In terzo luogo, fossero anche in venti o trenta, non potrebbero comunque da soli inventare soluzioni adeguate alle conoscenze e alla complessità dell’era moderna. Ma venti esperti, insieme, possono individuare e veicolare al governo le migliori soluzioni elaborate nel mondo. Nei nuclei tecnici della Pa, l’assegnazione dei ruoli in base alle competenze è fluida; e l’interazione fra esperti ne moltiplica l’efficacia. Inoltre, il “livello politico”, per recepire idee di qualità, ha bisogno che esse vengano semplificate, abbreviate, presentate, discusse, emendate più volte, nei luoghi, modi, e tempi “giusti”, integrate da indicazioni su costi, benefici, e possibili alternative. Cose che organismi estemporanei – del genere task-force Colao – non sono in grado di fare.

L’Italia è storicamente incapace di darsi un buon governo: diventa chiaro nei momenti difficili. Andiamo in guerra sempre impreparati, costringendo chi è in prima linea all’eroismo. Il problema è riconducibile all’incapacità (mancanza di volontà) del sistema politico di creare una Pa capace di (pagata per) “pensare” e progettare soluzioni di qualità. Il Covid aggrava i costi della scarsa cultura meritocratica. I “tuttologi” (in senso buono: politici, giornalisti) sono spesso incapaci di svolgere il loro compito più importante: selezionare gli esperti giusti, strutturarne il contributo in modo che sia valorizzato, ed avvalersene.

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La lettera a Conte del medico di famiglia contagiato dice tutto. Le scuse sono finite

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Basta!

Caro presidente Conte, sono un medico di famiglia e, come tanti altri contagiati, sono ricoverato in terapia semintensiva con una polmonite bilaterale. Io non so se rivedrò mia moglie e i miei figli… Da questo letto, mi sento di dirle che lei dovrebbe rimuovere chi non è stato all’altezza della situazione“. È questo l’appello di Domenico Minasola, 59 anni, un medico di base di Padova, al premier Giuseppe Conte, pubblicato ieri da Repubblica. “Sono uno dei tanti medici vittima del servizio… Rispetto le istituzioni, ma sono indignato dal comportamento dei suoi comitati e dei commissari che si sono fatti trovare impreparati in questa seconda ondata di pandemia“.

I suoi collaboratori non hanno capito che gli studi dei medici di famiglia sono diventati ambulatori Covid. E come tali andavano protetti con procedure e indicazioni di sicurezza che non sono mai arrivate. Avrebbero dovuto vestirci con tute e scafandro e non solo con mascherine e camici. Ci voleva organizzazione da parte del ministero della Salute e del comitato tecnico scientifico, che doveva darci disposizioni precise di protezione individuale e non solo imporre nuove misure verso i nostri assistiti“.

Francamente, non ho molto da aggiungere su quest’altra Caporetto della sanità pubblica. Le scuse sono finite. Le parole anche. Queste cose le scrissi ampiamente già in febbraio su ilfattoquotidiano.it, e ai primi di marzo sul Sole 24 Ore: “L’andamento degli ultimi giorni impone un graduale cambio della strategia di contenimento: dall’isolamento degli infetti alla protezione dei sani… in primo luogo di medici e infermieri… ecc”. Ora una brava donna, mia stretta congiunta, che fu affascinata da Monti, poi appoggiò Letta, poi Renzi, poi Gentiloni, ed ora è infatuata di Conte, mi chiede cosa penso del governo. Cosa dovrei rispondere? Che Salvini e Meloni sarebbero peggio? O come Travaglio: “Chi avrebbe mai potuto immaginare…”? Cos’altro deve succedere a questo povero Paese, l’ottavo Paese industrializzato del mondo, prima che la gente chieda, pretenda, un altro livello qualitativo dalla politica?

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Covid, tenere basso il numero dei contagi serve anche all’economia. L’appello per una strategia europea comune

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Con altri (quasi) quattrocento scienziati ed esperti di varie discipline – epidemiologi, esperti di globalizzazione, matematici, fisici – abbiamo lanciato su Lancet questo.

Appello per un impegno pan-europeo per una riduzione rapida e duratura delle infezioni da SARS-CoV-2 (Sintesi)

In tutta Europa, il Sars-CoV-2 sta causando un numero eccessivo di morti, gravando sulle società e sui sistemi sanitari, e danneggiando l’economia. Tuttavia, i governi europei devono ancora sviluppare una visione comune per la gestione della pandemia. Vi sono prove schiaccianti che dimostrano che – oltre alla salute pubblica – anche la società e l’economia traggono vantaggio da un basso numero di casi di Covid-19.

I vaccini aiuteranno a controllare il virus, ma non prima della fine del 2021. Se non agiamo ora, dobbiamo attenderci nuove ondate di infezione, ed altri danni alla salute, alla società, al lavoro e alle imprese. Poiché all’interno dell’Europa le frontiere sono aperte, un singolo Paese non può da solo tenere basso il numero di casi; dunque, un’azione congiunta e obiettivi comuni a tutti i Paesi sono fondamentali.

Noi chiediamo una risposta forte e coordinata a livello europeo, con obiettivi di medio e lungo termine chiaramente definiti. Tenere basso il numero di casi dovrebbe essere l’obiettivo comune pan-europeo per le ragioni seguenti:

Primo, meno persone moriranno, o subiranno danni di lungo termine dal Covid-19. Inoltre, risorse e strutture mediche torneranno a essere disponibili per altri pazienti che ne hanno bisogno.

Secondo, un basso numero di casi di Covid-19 salva posti di lavoro e imprese. I danni economici sono causati dalla diffusione del virus nella popolazione. L’economia tenderà a riprendersi in fretta quando il virus sarà stato ridotto o eliminato (come dimostrano Cina e Australia). Al contrario, i costi economici del lockdown crescono con la sua durata.

Terzo, è molto più facile controllare l’epidemia quando i numeri sono bassi. Allentare le restrizioni mentre il numero di casi è ancora alto è una strategia miope: provoca nuove ondate, e aggrava i costi per la società nel suo complesso. Le risorse per i test e il tracciamento dei contatti sono limitate: solo con un numero di casi sufficientemente basso, la strategia testare-tracciare-isolare-supportare (TTIS) può contribuire in modo decisivo, rapido ed efficace, a mitigare la diffusione del virus. In un simile contesto, le misure di distanziamento fisico potranno essere più blande e mirate, le scuole e le attività economiche potranno rimanere aperte.

Quarto, il tracciamento dei contatti e le quarantene diventano ingestibili quando la circolazione virale è elevata. Per esempio, con 300 nuovi casi al giorno per milione di abitanti (in Italia 18.000 nuovi casi), 10 contatti per caso, e 10 giorni di quarantena, per tenere l’epidemia sotto controllo il 3% della popolazione (in Italia 1,8 milioni) dovrebbe restare in quarantena, limitando fortemente la forza lavoro.

Quinto, l’immunità di gregge “naturale” non è un obiettivo sensato. I costi enormi, in termini di morbidità e mortalità, evidenziati anche dall’attuale eccesso di mortalità, e l’incerta durata dell’immunità, sconsigliano fortemente di seguire questo approccio.

Sesto, pianificare è possibile. Quando il numero di casi è basso, non è necessario cambiare le politiche in modo rapido e improvviso. Questo riduce il danno economico, l’incertezza, e lo stress della salute mentale. Tuttavia, se il numero di casi aumenta troppo, bisogna varare misure preventive in modo rapido e deciso per abbassarlo – e prima le si attua, meglio è.

Per gestire meglio la pandemia, proponiamo una strategia basata su tre pilastri:

1. Abbassare drasticamente il numero di casi:
– Puntare all’obiettivo di non più di 10 nuovi casi al giorno per milione di abitanti.
– Agire con decisione per ridurre rapidamente l’attuale elevato numero di casi.
– Per evitare un effetto ping-pong di importazione e reimportazione di infezioni da SARS-CoV-2, la riduzione dei casi dovrebbe essere sincronizzata in tutti i Paesi europei e cominciare il prima possibile. Questa sincronizzazione consentirà di tenere aperti i confini europei senza problemi.

2. Tenere basso il numero dei casi. Quando il numero di casi è basso:
– Un allentamento delle restrizioni è possibile, ma deve essere attentamente monitorato. Bisogna continuare ad adottare la mascherina, l’igiene, una moderata riduzione dei contatti, test e tracciamento dei contatti.
– Una campagna di test di sorveglianza deve essere sempre attiva, in modo da rilevare tempestivamente eventuali aumenti nel numero di casi.
– I focolai locali vanno affrontati con risposte rapide e rigorose, incluse restrizioni di viaggio, test mirati, e se necessario lockdown regionali.

3. Sviluppare una visione comune di lungo termine:
– Piani di azione nazionali e regionali, ben attagliati al contesto locale
– Obiettivi a livello europeo, adeguati alla circolazione del Covid-19
– Strategie per l’eliminazione del virus
– Monitoraggio, vaccinazione, protezione delle persone ad alto rischio
– Supporto per i più colpiti dalla pandemia.

Comunicare chiaramente l’obiettivo e i vantaggi di un basso numero di casi è cruciale per coinvolgere la popolazione e promuovere la collaborazione. Occorre spiegare chiaramente i benefici economici e sociali della riduzione nel numero di casi.

Controllare Covid-19 diventerà più facile, grazie a un’accresciuta immunità, più test, e migliori capacità di cura. Esortiamo i governi di tutta Europa a concordare obiettivi comuni chiari, a coordinare gli sforzi, a sviluppare strategie regionali mirate sugli obiettivi, e a lavorare con decisione verso il raggiungimento e il mantenimento di un basso numero di casi.

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Draghi deve conquistarsi la fiducia non solo dei politici, ma di tutti noi

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Il Presidente Mattarella ha dato martedì la sua risposta alla crisi di governo; una risposta di altissimo livello democratico. Prima di affidare il nuovo incarico, ha indicato con parole semplici le poche vere priorità del Paese. Ha indicato lo strumento: un governo di alto profilo. Ha detto implicitamente che la stabilità politica fine a se stessa non basta più, che il Paese ormai se ne infischia, e lui non è disposto a sacrificare il buon governo per inseguire i ricatti dei partiti. Ha detto che non votare in anticipo è democratico, perché il Parlamento non viene affatto esautorato.

Il Presidente ha poi affidato l’incarico di formare il nuovo governo a un uomo, Mario Draghi, capace di tessere abili tele politiche, e con le idee chiare sul che fare. Che promette un approccio scientifico e organizzato alla prevenzione epidemiologica; una selezione degli investimenti pubblici basata sulla analisi dei costi e benefici, invece che sui soliti criteri politici; uno spread più basso e una particolare attenzione ai giovani. È quel che ci vuole: tutto il resto è noia. Lo dice uno che nel 2011-2015 lo ha criticato fermamente: googlare per credere. Non siamo cambiati né io né Draghi, ma le circostanze.

Ora la palla passa di nuovo ai politici: soprattutto ai 5 Stelle. Sarebbe il colmo se, dopo aver fatto governi con tutti, non ne appoggiassero uno di alto livello; e solo perché essi (o alcuni di essi), non avendo un profilo di alto livello, verrebbero esclusi dall’esecutivo. Sarebbe una meschina rappresaglia contro gli italiani, che non lo dimenticherebbero. Questa non è l’ora dei pregiudizi ideologici: i partiti devono mettere da parte i loro fantasmi, i loro pallini, le loro frammentate priorità per confrontarsi con quelle di Mattarella e Draghi (che bene interpretano quelle dei cittadini).

Quanto a Draghi, non può permettersi di fallire nel Paese: ucciderebbe la speranza, ora e per decenni. Gli italiani, già parecchio cinici, si convincerebbero ancor più che non esiste un modo migliore di governare di quello di Conte, Salvini, Speranza, Renzi, Di Maio, Zaia e Gallera. Meglio allora rinunciare all’incarico, se manca il sostegno politico; o un domani, farsi sfiduciare dal Parlamento, aprendo le porte alle elezioni politiche generali. In tal caso, le istituzioni stesse sarebbero a rischio, e il Paese sbanderebbe; ma resterebbe viva la speranza di un’alternativa, di un sistema e una classe politica migliori; e con essi, la voglia di lottare. È questa la linea di resistenza morale che lo stesso Mattarella ha indicato.

Per essere fedele a questa linea, Draghi dovrà indicare senza ambiguità quali strategie intende seguire nella lotta alla pandemia, nella gestione del Recovery Fund, nel rafforzamento (della qualità) della pubblica amministrazione. Non potrà praticare il continuo rinvio delle decisioni difficili, tipico del suo predecessore. Per avere qualche possibilità, dovrà subito, all’inizio sfidare i partiti: a negargli la fiducia, o a seguirlo. Per esempio sulla pandemia, l’esperienza di tutti i Paesi virtuosi – dalla Norvegia al Giappone, da Singapore all’Australia – è di stroncare la pandemia con un lockdown duro iniziale, e poi tenere bassa la circolazione virale, investendo sui test monoclonali, tracing, isolamento, e vaccini. È il modo migliore per salvare l’economia nel lungo termine.

Ma se la sente Draghi di scegliere un Ministro della Salute controverso come Andrea Crisanti e proporre di chiudere tutto per un mese? Con la stanchezza che c’è in giro? Draghi dovrà essere molto convincente in Parlamento e davanti agli italiani. E coinvolgere attivamente la gente, il volontariato, nella campagna vaccinale, nell’assistenza domiciliare, nella formazione.

Draghi dovrà anche spiegare cosa significa “essere uniti” a un popolo di 60 milioni di abitanti, ognuno con la sua testa. L’esperienza a Francoforte, fra i tedeschi, gli avrà insegnato che “unità” e “patriottismo” non significa pensarla tutti allo stesso modo; significa, una volta presa una decisione, remare tutti nella stessa direzione. Draghi deve conquistare la fiducia non solo dei politici, ma anche di tutti noi. Purché, però, gliene diamo il tempo.

Chieda, Draghi, tre mesi di luna di miele al sistema politico e al Paese, tre mesi per il primo tagliando, il primo giudizio. E speriamo bene.

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Sul governo voglio guardare il bicchiere mezzo pieno. Una cosa però rimprovero a Draghi

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Presentando il nuovo governo al Paese, Mario Draghi ha già deluso, almeno in parte, quanti, in questa dura emergenza, speravano di essere governati – se non dai “migliori” – da un Esecutivo di alto profilo. La battuta più benevola che circola sui social oggi è: “Se questo è un governo di alto profilo, com’è uno di basso profilo?”. E giù irridendo i nuovi ministri: Carfagna, Gelmini, Giorgetti, Di Maio… Sinceramente, io vedo il bicchiere anche mezzo pieno. Per esempio, il nuovo ministro dell’Economia Daniele Franco – neoliberista ma non propriamente un economista duro e puro – ha un’eccellente competenza sui conti pubblici e i meccanismi di spesa, una conoscenza profonda delle istituzioni, uno stile pacato che favorisce il compromesso: è più o meno quello che serve nella situazione odierna. Idem Colao e Cingolani.

Ma la parte mezza vuota del bicchiere colpisce. La folta presenza al governo di navigati politici sembra quasi una mancanza di rispetto nei confronti del Presidente della Repubblica. Il quale aveva dato mandato a formare “un governo di alto profilo”, non meno, ma che poi si è dovuto piegare alla volontà del Presidente incaricato: dopo aver umiliato i partiti con l’incarico a Draghi, Mattarella non poteva andare oltre. Noi oggi non sappiamo quanto forti siano state le pressioni dei partiti per “abbassare” il profilo del governo. Draghi avrebbe dovuto resistere, a costo di varare un governo politicamente debole? O di andare verso le elezioni: lasciando a ciascuno le sue responsabilità? Non potremo mai esserne certi: la controprova non c’è.

Una cosa però possiamo sicuramente imputare a Draghi. Qualcosa che è sfuggito ai più: imbottiti come siamo di retorica nazional-popolare da una stampa “libera” solo a parole; che difende “a prescindere” la propria parte politica; così provinciale da non guardare mai oltre l’Europa (e gli Usa)… Non so quanti lettori accendano la Tv alle 4 del mattino per vedere, in diretta da Auckland, le splendide regate di Luna Rossa; o guardino i video in differita sul sito dell’America’s Cup. Se lo facessero, vedrebbero apparire sugli schermi un altro mondo, del quale la nostra stampa non parla, mai. Un mondo Covid-free, dove tutti, senza mascherine, ridono e scherzano, si abbracciano e lavorano serenamente. Questa prospettiva ieri ci è stata tolta per molto tempo ancora.

Sento parlare di prescrizione, parità di genere, Nord, Sud, ambiente: tutte cose importanti! Ma c’è una gerarchia dei problemi e delle urgenze. Mattarella l’aveva ben indicata a Draghi. Secondo il Recovery Fund. Primo la crisi sanitaria. Perché l’economia dipende dalla pandemia ma non viceversa. Draghi è troppo intelligente per non capirlo, ma la cattiva notizia è che si ferma qui. Come molti altri – scopriamo – pensa di risolvere tutto con un approccio manageriale: una efficiente campagna vaccinale! Ma le cose sono un po’ più complicate. Meglio di me, noti epidemiologi internazionali hanno già spiegato perché i vaccini, pur essendo parte importante della soluzione, da soli non risolveranno la pandemia: tantomeno nei tempi brevi richiesti dalla nostra economia.

Potevamo avere un Crisanti (Pregliasco, De Vogli…) ministro della Sanità, e varare anche da noi le politiche di prevenzione epidemiologica (test, trace, isolate, support) che hanno fatto in Viet-Nam, Australia, Norvegia, Giappone… insomma in quel quarto di mondo che è stato liberato dal Covid. Se c’era una figura determinante per il nostro bene comune, su cui Draghi doveva impuntarsi, questi è il ministro della Salute. Confermare il ministro uscente significa che non ci sarà un cambio di passo sulla questione all’origine di tutti (o quasi) i nostri guai presenti. Lo si evince anche dal nuovo inadeguato Piano pandemico pubblicato a fine gennaio. Questo perseverare nell’errore costerà all’Italia almeno altri 4-5 punti di Pil da qui alla fine del 2022, 8 punti percentuali di debito pubblico (sul PIL), e tanta sofferenza. Né ci rassicura Giorgia Meloni, che denuncia il nuovo governo con toni indignati, ma in caso di vittoria elettorale farebbe esattamente lo stesso o peggio.

La questione interessante è semmai un’altra: come organizzare un sistema di governance resiliente di fronte alla possibilità di questi errori, a volte catastrofici, dei singoli: anche dei “migliori” in condizioni difficili. Una risposta giusta a tale quesito potrebbe finalmente sottrarre l’Italia al suo lungo declino. Ma oggi non vi dico la mia: dite la vostra nei commenti.

Lo so. Una parte di lettori, non avendo approfondito l’epidemiologia del Covid-19, incantati dai tanti pifferai che calcano i nostri palcoscenici, non credono alla scienza, né che “un altro mondo è possibile”; e non capiscono di cosa parlo. Innamorati di Conte, Speranza, Salvini, diranno… “Non è vero che i dati italiani [chiusura scuole + variazione Pil + morti per Covid pro capite] sono [tra] i peggiori al mondo”. “Non si può fare meglio”. “Non dobbiamo confrontarci con i Paesi virtuosi, ma con quelli epidemiologicamente mal gestiti [europei non scandinavi]”. “In Italia ci sono più anziani” [e in Giappone?]. “Australia, Nuova Zelanda, Taiwan sono isole!” [il Regno Unito no?]… Volete Speranza? Tenetevelo, ve lo meritate. Ma non dite che ce lo meritiamo tutti. C’è un’altra Italia, aperta al mondo, che sperava di essere rappresentata dal nuovo governo, e che ancora una volta, forse, non lo sarà.

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Altro che ‘nessuno poteva prevedere’: c’è chi parla chiaro, ma resta esule in patria

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Se qualcuno ancora pensa che gli epidemiologi siano “medici” e chi non lo è (ma è matematico, statistico, economista, sociologo, microbiologo) è un presuntuoso che si rende ridicolo se studia, parla o scrive di Covid; se qualcuno ancora pensa che Conte e Speranza abbiano governato bene (l’epidemia); se qualcuno ancora si domanda perché nel disastro europeo sono coinvolti, oltre a noi puzzoni, anche fior di Paesi nordici, alcuni persino “ariani”; se qualcuno ancora s’illude che “Draghi porterà la competenza al governo” della pandemia (come ho fatto io, per pochi giorni, e me ne scuso); se qualcuno ancora si beve la favoletta che “nessuno poteva prevedere”, e “siamo stati tutti sorpresi”, e “di questo virus non si sapeva nulla”, costui farebbe un gran bene a leggersi l’intervista di oggi del Fatto Quotidiano con Giovanni Sebastiani.

Per la verità, Johan Sebastian non è l’unico che ha studiato la questione e si è agitato inutilmente: perciò poverino non dice niente di nuovo – salvo per qualcuno… Non è il solo kamikaze a sfiorare, già dal febbraio 2020, una denuncia per “procurato allarme”. Non è l’unico scemo a non capire come va il mondo. Se sei democrat metti la mascherina, se sei republican farai sempre il cretino. Dovunque te ne vai, qualunque cosa fai, in base alla fazione penserai. Sarà così, finché vivrai. Per i grillini, piddini, e i ce-lo-di-ce-leu-ro-pa: tutto bene, sempre. Per i celoduristi e i neofascisti: ma non si poteva governare peggio? Nella realtà paranormale, i grilli parlanti come Sebastiani sono esuli in patria.

Ma se qualcuno, riemergendo dalla commendevole lettura, volesse, nella sezione “Commenti”, farsi una domanda e darsi una risposta – non so, magari sulla qualità delle istituzioni occidentali, sui problemi di una globalizzazione non regolata: epidemie? Crisi ambientale? Crisi finanziarie? Rischi nucleari? Googlare alla voce “Global Public Goods” – persino sui nostri valori decadenti non farebbe danno. Ieri invece, quattro amici al bar ridevano e scherzavano senza mascherina né distanza; poco lontano i medici e gli infermieri superstiti dell’ospedale, sfiniti nei loro scafandri, saltavano da un paziente all’altro cercando di farli respirare.

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Euro 2021, il calcio è gioco e non guerra: questo è lo sport

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La vittoria dell’Italia agli Europei di calcio ha liberato istinti profondi del nostro popolo: il bello e il brutto che c’è in noi. La nazionale ha dimostrato forza, carattere, capacità di coordinamento, ma anche irradiato bellezza, serenità, e stile. Mancini con i suoi slogan ha ricordato a tutti che il calcio è gioco, non guerra: “Divertiamoci!”. Ma ha anche sempre sottolineato che l’Italia non era lì solo per partecipare: “Vinciamo!”.

Questo è lo sport, questo è l’orgoglio che riemerge di un popolo troppo spesso mortificato dai suoi stessi dirigenti politici, troppo (e interessatamente) esterofili. Valori come l’amicizia, l’unità del gruppo, la meritocrazia – sostenuti anche da dirigenti-campioni come Oriali, Evani, e Vialli – sono apparsi ingredienti tutt’altro che di contorno: necessari al risultato sportivo. Dicono: la vittoria della nazionale farà bene all’economia. Spero che farà bene innanzitutto all’etica, e alla democrazia: non è vero che siamo tanto incapaci (anche di governarci). La sobria presenza di Draghi e Mattarella sembra avvalorare la fiducia ritrovata.

Per quanto ho potuto osservare qui a Roma, l’esemplare, articolata leadership si è riflessa nei festeggiamenti di piazza. Già domenica notte, tutti, a cominciare dalle periferie, si sono riversati sulle vie consolari, verso il centro. Però senza nevrosi, manovre spericolate, eccessi. Solo bandiere, colori, trombette, canti, come tanti bambini liberi. Poi è arrivato il lunedì 12 luglio, anniversario della nascita di Cesare. Nel pomeriggio, la calura non era ancora scesa, e già Roma era spettinata da fremiti gioiosi. Di nuovo tanta gente per strada, dispersa ai vari punti di presunto passaggio degli azzurri, diretti al Quirinale e a Palazzo Chigi. Colori, suoni, sorrisi, bandiere sventolate incautamente, turisti intrappolati, come Alice, in un Paese delle Meraviglie. Giovani che corrono (ma dove?), autobus deviati, piazze transennate. La polizia che si agita, annusando l’evento, e aumenta il chiasso generale con gli elicotteri sul cielo di Roma. Ed infine il trionfo dei nostri, sull’autobus scoperto, che percorre a passo di tartaruga, fra due ali di folla, la nuova via Sacra dalla colonna di Marco Aurelio a quella di Traiano.

Il peggio esce fuori sui social, sui media. Gli “inglesi” (in toto) accusati di aver fischiato l’inno nazionale italiano, per essersi sfilati la medaglia d’argento dal collo troppo in fretta. Nicoletta: “Sono un popolo di INCIVILI e “maleducati”. Giovanni: “pezzi di sterco”. Nito: “più arroganti di cacche fritte”. Cecilia: “Mai esistito il fairplay inglese, la loro è altezzosità”. Non manca tuttavia chi li difende. Piero: “In qualunque finale di Champions League gli sconfitti si sfilano la medaglia prima ancora di riceverla e Chiellini, Bonucci e Buffon lo hanno fatto diverse volte. L’inno argentino venne fischiato ad Italia ’90 e Maradona ci diede dei figli di buona donna”. Rossana: “Perché i tifosi italiani mai fatte queste cose! Piantatela! Da che pulpito quelli che a Roma li hanno accoltellati!”.

Alcuni politici “europeisti” avevano già cominciato a indirizzare il nostro patriottismo verso un nazionalismo-UE deteriore, tirando in ballo la Brexit. I Commissari Michels e Von der Leyen, ad esempio, o esponenti del Pd come Alessandra Moretti: “Viva gli azzurri campioni d’Europa! L’Europa unita batte l’Inghilterra della Brexit”. Esultanze un tantino inquietanti: “Siamo amici dell’Italia finché sta nell’UE, altrimenti diverreste ‘non-amici’, come gli inglesi”. Insomma: libertà vigilata. Rivalsa contro una libera scelta degli inglesi. Spiacevole intromissione di questioni politiche in una realtà sportiva che dovrebbe unire tutti.

Bene ha risposto Mancini, fin dalla vigilia, definendo gli avversari “gli amici inglesi”. Anche la squadra, a cominciare da Chiellini, ha sempre mostrato grande cordialità agli avversari, anche mentre il risultato era in bilico. A maggior ragione, da vincitori, possiamo sorvolare su qualche eventuale caduta di stile degli sconfitti.

L’antipatia per gli anglosassoni in Italia ha radici storiche. La “perfida Albione” era un detto fascista usato per coprire le gravi responsabilità dell’imperialismo italiano in Africa: qualche giovane ignaro oggi lo riutilizza incautamente. Anche il comunismo nostrano era anglofobo (per l’assetto liberale internazionale da essi promosso). A volte penso che si sprezzino gli anglosassoni per erodere la Costituzione, l’indipendenza, e la residua libertà del nostro popolo. O forse no… restiamo allo sport, alla bellezza, all’umanità, e alla pace che è capace di diffondere.

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‘A conti fatti’è un libro sincero: emerge l’esigenza di una democrazia regolatrice

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Sotto l’ombrellone quest’anno ho portato anche un libro (A conti fatti, Feltrinelli, giugno 2020) di Franco Bernabé: se volete “un boiardo di Stato”, comunque un protagonista del capitalismo italiano degli ultimi 40 anni. Di solito non leggo questa letteratura dei manager che si credono padreterni e che si appiccicano da soli tante medaglie sul petto. Ma stavolta – pur saltando qualche paragrafo qua e là – la lettura è risultata alla fine avvincente.

Questo è un libro sincero. Ed è un libro che va “oltre”: l’azienda, i profitti, la vanità. Il succedersi delle vicende aziendali qui rivela davvero: i meccanismi del capitalismo in azione; la commistione fra politica ed economia; i costi enormi che la politica infligge al Paese; i vizi e le virtù di un’intera classe dirigente, di una vasta umanità. Chi vorrebbe “più Stato” nell’economia trova pane per i suoi denti. Chi inneggia al libero mercato viene messo di fronte all’indole speculativa e socialmente dannosa di buona parte del ceto imprenditoriale privato.

“A conti fatti” emerge, sopra ogni ideologia e pregiudizio, l’esigenza suprema di una democrazia funzionante e regolatrice, con le sue istituzioni di controllo: unico modo per incanalare, bene o male, il turbine degli interessi e delle passioni in un alveo costruttivo dal punto di vista del bene comune. Qualche citazione dal libro può forse dare un’idea più dei miei commenti. Scrive Bernabé:

Agnelli era patriottico… e pensava che l’Italia dovesse avere un ruolo propositivo nel processo di costruzione dell’Europa. Invece per molti politici che ho conosciuto l’Europa è uno schermo dietro cui nascondere la propria incapacità di concepire un disegno di modernizzazione del paese… “Lo vuole l’Europa” sintetizza la mancanza di visione di una parte non piccola della nostra classe politica. Questo ha fatto sì che nell’UE non siamo stati capaci di rappresentare e di difendere i nostri interessi nazionali. Abbiamo accettato quello che altri, ben più attenti di noi ai loro interessi, decidevano.

Scartai la possibilità di assumere manager provenienti dall’esterno. In un’intervista spiegai che, in base a semplici considerazioni di tipo probabilistico, confidavo nel fatto che in un gruppo come ENI vi fossero almeno 12.000 eccellenze che avrei potuto valorizzare. Bastava cercarle.

Mi chiese a quanto ammontasse il mio patrimonio personale dopo la privatizzazione di Eni. Il suo aveva raggiunto i 5 miliardi di dollari. Gli dissi che avevo ricevuto un aumento di stipendio.

Nel corso degli interrogatori [il Presidente dell’ENI, Cagliari] aveva ammesso gli episodi di corruzione…: un sistema che forse aveva subìto, ma da cui aveva tratto importanti benefici personali. … L’ambizione … aveva finito per travolgerlo, e l’orgoglio gli aveva impedito di dissociarsi da quel sistema anche quando non c’era più alcuna ragione per sostenerlo… Credo che un malinteso senso del pudore non gli consentisse di ammettere apertamente, come scrisse il giudice, la sua pregressa attività criminosa.

Pacini affermava … : “Noi s’è usciti da Mani Pulite perché s’è pagato, quelli più bravi di noi non ci son nemmeno entrati”, … come se il pool di Milano avesse favorito qualcuno, per finalità non trasparenti. Al Gip … rispose: “per quelli più bravi intendevo proprio Bernabé”. Pacini non distingueva… fra chi era a libro paga e chi … lavorava con onestà… Giuseppe D’Avanzo su Repubblica fu il primo a parlare di vendetta contro il pool… Piercamillo Davigo aveva dichiarato che nella Finanza erano avvenute deviazioni… Se vogliono la guerra, che guerra sia, mi dissi. Non mi sarei lasciato intimorire dalle calunnie.

Bisogna intendersi su cosa significhi ruolo imprenditoriale dello Stato. Quest’ultimo possiede tutti gli strumenti per promuovere progetti che hanno importanti ricadute sull’economia… finanziamento della ricerca, procurement…, la promozione di tecnologie innovative nella Difesa… incentivi fiscali… Se sceglie di entrare nel capitale di una società deve però rispettare le regole di governo del sistema di imprese. … La politica ha invece bisogno … di discrezionalità… In tal modo però sfugge ai vincoli della pubblica amministrazione ed entra in un mondo in cui non esistono regole codificate che separino la discrezionalità dall’arbitrio.

In Europa l’obiettivo di creare un mercato unico ha comportato la necessità di fissare un gran numero di rigidissime regole. Ciò ha creato un contesto competitivo diverso rispetto al resto del mondo… La complessità del sistema determina oneri rilevanti che possono essere sostenuti solo da imprese di grandi dimensioni.

Riforme, riforme, ma non vi sembra che le cose vadano già male abbastanza? (Lord Eldon, 1820)

Non so se tutto quel che scrive Bernabé sia esatto, o condivisibile; certamente si possono avere opinioni diverse su di lui. Tuttavia questo testo è importante per capire la politica e cosa succede “dietro le quinte”. Le annotazioni autobiografiche, etiche, psicologiche, politiche, storiche, economico-finanziarie, i diversi valori in gioco, la palese ricerca di equilibrio nella complessità rendono questo libro ricco e istruttivo oltre le aspettative.

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Afghanistan, quello che vediamo è l’unico risultato possibile

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Come nasce la débàcle afghana? La mia esperienza dentro le istituzioni è che il livello politico ignora persino l’esistenza di un filone di studi di alto livello relativo ai failed states e al nation building. Questo, in Italia, accade perché il governo, e in particolare il Presidente del Consiglio, non ha un suo Council of Economic Advisers all’interno del quale, se non ci fossero esperti di development e di nation building, ci sarebbe tuttavia con grande probabilità qualcuno che perlomeno sospetti l’esistenza di questi studi/studiosi, ne intuisca il valore e sia in grado di interfacciarsi con loro, prendere contatto, dialogare; e riportando le idee più generali al caso concreto, sottoporre infine al governo delle alternative con i probabili costi e benefici, rischi e opportunità. Ovvio, le teorie vanno applicate al caso concreto, ma con una preparazione teorica uno si orienta molto meglio.

Quando studiavo “Development Economics” a Oxford, con Paul Collier e C. (e scusatemi!), frequentavo il Queen Elisabeth House, veneranda istituzione specializzata in Terzo Mondo, sviluppo e soprattutto failed nations. La Presidente Frances Stewart fu anche mia relatrice di tesi. Avendo respirato quell’aria, nel 2004, pochi giorni prima dell’attacco Usa a Saddam, le istituzioni italiane mi chiesero una analisi cost-benefit di una eventuale partecipazione alla “ricostruzione” dell’Iraq. All’epoca c’era l’idea che si sarebbero potuti avere ricchi contratti e soldi facili per le nostre aziende. Fra le cose che feci, contattai diversi miei compagni di corso, colleghi del Centre de Developpement dell’Ocse e dell’Unctad, dove ho lavorato successivamente: amici che a quel punto lavoravano in varie istituzioni nazionali o internazionali. Grazie a loro, mi resi conto che gli americani non avevano nessun piano di nation building.

Mi colpì il racconto di un amico dell’Onu. In una riunione a Ginevra era stata messa all’ordine del giorno la protezione del museo archeologico di Bagdad. Ma gli americani avevano detto non solo di non avere alcun piano in proposito, ma non erano interessati: al punto che se n’erano andati a metà riunione. Per me era un segnale di quello che sarebbe successo. Perciò scrissi nella mia relazione che dopo la presa di Bagdad ci sarebbe stata una finestra di 30-45 giorni di calma, durante i quali i diversi attori avrebbero valutato i nuovi arrivati: era cruciale indirizzare le aspettative, per evitare spinte divergenti, anche coinvolgendo gli attori chiave in un processo di ricostruzione istituzionale. Il problema fondamentale di una failed nation è il coordinamento degli agenti, da riportare dentro uno “Stato” (da costruire). A tal fine è essenziale gestire le aspettative fin dall’inizio: le aspettative del tempo t+1 sono figlie del tempo t.

Scrissi che gli americani non si rendevano conto e non avrebbero lanciato una strategia sostenibile. Che pertanto dopo i primi 45 giorni la situazione dell’ordine pubblico sarebbe degenerata, dopodiché l’Iraq sarebbe diventato una palude senza rimedio. Pertanto, in nessuno scenario l’Italia nell’insieme avrebbe guadagnato con la sua presenza. Difatti il favoloso museo archeologico fu saccheggiato, contribuendo all’insorgere del caos: i disordini e gli attentati iniziarono puntualmente.

Non è solo questione di expertize? Certo: la storia ha un seguito. Il mio capo mi disse che “Berlusconi vuole andare in Iraq, dunque io non posso presentargli uno studio con queste conclusioni… le devi rovesciare!”. Saltarono fuori anche non meglio identificati presunti interessi di “un sottosettore di Confindustria”, “amici”, “che hanno interesse a andare in Iraq”. Quando risposi che io non rovesciavo nulla e che facesse lui con la sua firma sotto, fui trasferito in una stanzetta e, fino alle elezioni del 2006, privato di ogni incarico. Non so che fine fece la relazione.

L’Afghanistan è figlio di quell’esperienza. Stesse logiche, stessi attori. La comunità di esperti di failed nations e development ha guardato per anni con sconforto e rassegnazione all’azione dell’Occidente nell’antica Bactria. Una sintesi del punto di vista – non di oggi, di sempre – della comunità scientifica è riportata in questo link. Noi oggi diciamo: “Gli americani hanno gestito male l’Afghanistan”. Ma noi italiani, bravi a gestire le situazioni locali dialogando con tutti, stavamo dentro a una strategia persa in partenza, e non abbiamo mai avuto la capacità di dire al nostro alleato che la strada da percorrere era un’altra. L’Occidente “che ha fallito” siamo anche noi. La gente in Italia se ne rende conto, nonostante la retorica dei giornali; difatti c’è molta solidarietà verso i profughi: ci sentiamo, e giustamente, responsabili. Solo che non abbiamo la capacità di analizzare da dove nasce il nostro fallimento e come porvi rimedio.

Molti ora criticano le modalità del disimpegno americano. Ma questa ritirata è figlia dell’infelice gestione del ventennio precedente. Il ritiro non può essere fatto all’improvviso: deve essere annunciato. L’annuncio cambia subito le aspettative di tutti. Sicché man mano che il ritiro determina un vuoto di potere, gli agenti si comportano di conseguenza. I talebani: avanzano! Gli altri: cercano di mettersi d’accordo con loro! Ciò crea una accelerazione esponenziale del crollo del potere uscente.

Un forte esercito afghano doveva coprire la nostra ritirata? Ma poi sarebbe stato al servizio di chi, se le forze anti-talebane non hanno trovato il modo di coalizzarsi in uno Stato che media fra gli opposti interessi? Se poi l’unico Stato credibile è quello talebano, la gente si acconcia in tempo reale: lo Stato afghano e il suo esercito non possono coprirci. In alternativa, si poteva tentare una evacuazione dei civili protetta da una forte military surge occidentale. Ma per motivi domestici i nostri leader, dopo 20 anni di gestione insipiente, non potevano più mandare altri soldati. Perciò quello che vediamo è l’unico risultato possibile.

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Quirinale 2022: quando lo stile è sostanza

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Diverse donne, finalmente, sono candidate alla Presidenza della Repubblica; ma non sono tutte uguali. Secondo Repubblica, nella notte fra giovedì e venerdì, una avrebbe telefonato a molti parlamentari, con una richiesta: “Votatemi!”. Una grave caduta di stile, ovvio, ma qualcuna non sa resistere: troppo ghiotta l’occasione. Altre invece si tengono manifestamente alla larga dai politici, a scanso di equivoci; vanno in ufficio e s’impegnano in silenzio nel lavoro quotidiano. Non è solo furbizia. Mandano al Paese un messaggio demodé, culturalmente anti-Berlusconiano: “Non si briga per i ruoli apicali. Se chiamati, li si ricopre nell’esclusivo interesse della collettività”.

Guarda caso, i candidati che manovrano senza pudore per “arrivare” sono anche quelli che in passato hanno usato il denaro pubblico in maniera dubbia, hanno nominato i propri figli e parenti nei ruoli della pubblica amministrazione, hanno difeso le leggi ad personam, ecc. (basta googlare). Viceversa, chi ostenta distacco – chissà, magari poi non dorme la notte: Gollum!, ma – come minimo conserva uno stile che diffonde onestà, correttezza, impegno e spirito di servizio intorno a sé.

Non sappiamo se sia tutto oro quel che luccica. Non sappiamo soprattutto se le candidate e i candidati, al di là dell’etica, portino con sé anche una riflessione, profonda e ben centrata, sul declino italiano e su come un Presidente della Repubblica possa favorire un nuovo trend. (E lasciamo perdere le banalità semi-autoritarie). Si ha un bel dire che debba essere super partes, certo: ma il Presidente ha anche poteri “di indirizzo” non trascurabili, specie quando la politica è senza bussola. Serve un Presidente onesto, democratico, con buone relazioni, ma con le idee chiare e l’umiltà di ascoltare eccellenze, intellettuali, anche quelli emarginati dal potere a causa della loro visione alternativa.

Matteo Salvini per una volta si sta muovendo bene. Lo danno per sconfitto dopo la débàcle Casellati: in realtà sapeva fin dall’inizio dove andava a parare. Dovendo scegliere il Presidente tutti insieme, non essendo d’accordo su nulla, i partiti finiranno per eliminare le rispettive bandiere con i veti incrociati e i franchi tiratori, per poi scegliere chi non ha mai dato politicamente fastidio a nessuno, che super partes è stato/a sempre. Ieri infatti Lega, M5S e FdI stavano per eleggere una donna di qualità e senza tessere di partito: sono stati bloccati, senza un perché, da un Pd in confusione.

Quanto a Mario Draghi, rischia di uscirne malconcio, con il probabile fallimento della sua non troppo velata auto-candidatura. Con lui il governo. A questo punto ha bisogno almeno di un Presidente che gli copra le spalle. Sergio Mattarella. O magari una Presidente “amica”.

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Il fallimento della politica è profondo. E, senza i freni costituzionali, la destra tenterà la spallata

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Nei commenti a caldo, subito dopo la rielezione di Mattarella, è emerso un netto divario i tra politici (euforici), i direttori dei grandi giornali e i network TV (soddisfatti, rassicuranti), e la gente comune (infuriata). Sui social, il 98% dei commenti sono di questo tenore: “indegni”, “vergogna”, “desolante”, “classe politica imbarazzante”, ecc.

Ad esempio Michela sottolinea “l’incapacità dei partiti di fare un nome alternativo serio, di andare oltre gli interessi di parte e di proporre una figura di alto profilo… Deludente, avevamo l’occasione di scrivere la storia, di avere un presidente donna che avrebbe dato il suo inestimabile contributo, peccato”. Giorgio: “Tutti apprezziamo Mattarella, ma nascondersi dietro a un galantuomo non fa onore ai parlamentari. Che hanno fallito nel loro compito, costringendo il galantuomo a metterci una pezza, e il Paese a subire una forzatura costituzionale”.

Su Mattarella, sempre rispettato, compaiono solo velate critiche. Rita: “Un giovanotto… finirà il suo mandato a 87 anni portando energia ed innovazione!”. Carlo: “Il presidente Mattarella non merita di seguire la volontà malata di questo Parlamento”. Roberto: “Doveva essere coerente e non accettare il secondo mandato altrimenti è solo un gioco delle parti…”. L’esito finale è giudicato unanimemente comunque non male (o buono). Ed allora, perché tanta rabbia?

Il 29 gennaio Pd, Leu, IV, e FI hanno bocciato la candidata a cui, dopo ampia selezione, si era giunti, caratterizzata da importanti valori democratici, umani, caratteriali, con grande esperienza istituzionale, e veramente super partes (dimostrata nella vita professionale), proposta da Salvini, Meloni, e Conte? Il pretesto ideale è stato offerto da Renzi: “Il capo del SIS non può diventare Presidente”. Altri politici si stanno associando, ma Letta (Pd) ha candidamente ammesso: quel ruolo “non era ostativo”. (In ogni caso il SIS non è un servizio segreto ma un ente di coordinamento). Ma anche fosse: l’asino casca di fronte all’incapacità dei partiti di selezionare qualsiasi candidata/o di livello. Non, stavolta, perché non vogliono una donna. Come ha scritto il sig. Riziero su Facebook: “60 milioni di incapaci: questo ci avete detto, grandi elettori!”.

Ho chiesto lumi via sms a un deputato del centro-sinistra il 29 mattina, prima che i capi di partito si recassero in ginocchio da Mattarella. Come mai non votate una candidata che incarna i valori costituzionali che dichiarate di sostenere, quando persino i neo-fascisti sono disposti a votarla? Risposta: “Ciao Giorgio, il punto è che in nessuna democrazia al mondo le più alte cariche politiche sono occupate da persone di indubbia qualità ma mai passate al vaglio del voto popolare”. Questo è il vero retro-pensiero che ha impedito l’elezione di un nuovo presidente.

La tesi del mio amico politico ignora la Storia. Dini, Ciampi, Monti, Draghi – i primi che mi vengono in mente – hanno occupato alte cariche senza “voto popolare”. Nel resto del mondo sono talmente tanti (Yellen, ecc.) che è inutile parlarne. Inoltre, il mio amico manca di rispetto alla Costituzione. L’art. 84 recita: “Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici”.

Quanto alla democrazia, le segreterie dei partiti scelgono i candidati nei collegi senza alcun “vaglio popolare”. Sotto sotto, emerge una concezione tendenzialmente peronista, di democrazia diretta, quando la nostra Costituzione è (saggiamente) impostata sulla democrazia rappresentativa: il corpo elettorale sceglie i membri delle Assemblee Legislative (Parlamento, Assemblee Regionali), e questi a loro volta dovrebbero nominare nei ruoli esecutivi e istituzionali (PdR, C.Cost., CSM…) i migliori. Invece i nostri politici si sono allargati: a monte, la selezione della classe politica è stata sottratta ai cittadini; a valle, le posizioni esecutive e istituzionali, i selezionatori le riservano per se stessi (salvo quando i disastri sono tali che bisogna chiamare il Salvatore della Patria di turno).

Per inciso, con il criterio del “vaglio popolare” era impossibile trovare l’agognato PdR super partes: chiunque fa politica non è super partes.

Questo criterio è alla base del declino italiano. Lo aveva previsto Enrico Berlinguer nel 1981: “I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia… I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo… enti locali, enti di previdenza, banche, aziende pubbliche, istituti culturali, ospedali, università, la Rai TV… E il risultato è drammatico. Tutto… [si fa] in funzione dell’interesse del partito … corrente … clan cui si deve la carica. Noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato… ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni…”.

Negli ultimi decenni i partiti hanno asfissiato il Paese con i conflitti di interesse e la mediocrità. Ora la destra prepara la spallata decisiva (nella prossima legislatura): senza i controlli costituzionali sulla maggioranza di turno non ci saranno più freni. La Costituzione, nonostante i partiti, sta garantendo ancora libertà, benessere e… Mattarella! Andrebbe attuata, applicata, aggiornata. E chi se non gli eredi dell’arco costituzionale dovrebbero proporre una strategia di “ritorno alla Costituzione” per uscire dal declino?

Invece, a sinistra hanno perso la cultura costituzionale. In altre parole, il centro-sinistra in quanto tale non è in campo. Perciò siamo un Paese squilibrato e instabile.

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Crisi ucraina, Putin vuole rifare l’Urss. L’Italia non può sottovalutare

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Un lupo e un agnello, stimolati dalla sete, erano giunti a uno stesso ruscello. Più in alto stava il lupo, molto più in basso l’agnello. Allora il primo, prepotente e spinto dall’insaziabile gola, addusse un pretesto di contesa: “Perché – disse – mi hai intorbidito l’acqua mentre bevevo?” E l’agnello timoroso: “Ma scusa, o lupo, come posso fare quello di cui ti lamenti? L’acqua scorre in giù dalle tue alle mie labbra”. E l’altro, vinto dalla forza della verità: “Sei mesi fa – riprese – hai detto male di me”. Rispose l’agnello: “Ma se non era ancora nato!” “Tuo padre allora – replicò – disse male di me”. E senza dire altro, afferra il povero agnello e lo mangia ingiustamente. Questa favola è stata scritta per quegli uomini che con falsi pretesti opprimono gli innocenti.

La celebre favoletta di Fedro sintetizza mirabilmente l’eterno confronto fra mitezza e prepotenza. Il prepotente tende sempre a confondere le acque, a indossare i panni della vittima, per giustificare le sue indebite mire. Spera così di isolare i bersagli, per coglierli soli e indifesi. La prepotenza appare troppo stupida per essere vera: le guerre lasciano tante macerie dietro di sé! Perciò, all’inizio, lascia attoniti… Ma il prepotente ragiona in modo diverso: conta sul fatto che le sue vittime non possano o non vogliano reagire.

Il caso di Hitler è paradigmatico. Il 7 marzo 1936 le truppe naziste occuparono la Ruhr demilitarizzata violando il Trattato di Versailles. Constatata l’assenza di reazioni, dopo due settimane Hitler annunciò il riarmo (illegale); il pretesto fu un vago “Trattato di mutua assistenza” fra Francia e Russia, difensivo, attivabile solo col benestare della Società delle Nazioni. Hitler lo definì “una minaccia”. E l’ex primo ministro inglese David Lloyd George dichiarò: “Hitler’s actions are fully justified to protect his country… he would have been a traitor to Germany if he had failed to act” [‘Le azioni di Hitler sono pienamente giustificate per proteggere il suo paese… sarebbe stato un traditore della Germania se non avesse agito’].

Negli anni seguenti, Hitler appoggiò il fascista Franco. Nel marzo 1938 annetté l’Austria, nel 1939 i Sudeti (minoranze tedesche), poi tutta la Cecoslovacchia. Si accordò con la dittatura sovietica, pretese un pezzo di Polonia (“corridoio” per Danzica), poi inscenò un finto attacco polacco alla frontiera, invase la Polonia, e sterminò milioni di civili ebrei e slavi. Perché: la Germania aveva bisogno di “spazio” (“vitale”) intorno a sé. In tutte queste circostanze, vi furono europei e americani (come Lindberg) disposti a giustificare i nazisti.

Il parallelo con la Russia di Vladimir Putin è netto. Il 5 dicembre 1994 (Memorandum di Budapest) l’Ucraina rinunciava alle sue armi nucleari e la Russia si impegnava a rispettarne l’indipendenza e l’integrità territoriale. Ma, dopo essersi presa un pezzo di Georgia, nel 2014 la Russia annetteva la Crimea, perché “tutto, in Crimea, parla di Storia ed orgoglio condivisi fra di noi”. All’estero dissero: in fondo in Crimea parlano russo! Poi appoggiò il fascista Assad. Sobillò, finanziò, e armò gli indipendentisti nell’Ucraina orientale, annettendosi di fatto quelle regioni. Ora prova ad accordarsi con la Cina (che però sembra più saggia di Stalin), mentre provoca scontri con l’Ucraina per poterla invadere.

L’altro (nuovo) pretesto è la Nato. Dopo l’annessione della Crimea, la Nato ha schierato 5000 uomini nei Paesi Baltici e in Polonia, che certo non minacciano la Russia. La loro funzione è la deterrenza, cioè farsi sparare addosso in caso di attacco russo, per garantire ai russi che la difesa dei Paesi liberi dell’Est Europa è preso sul serio in Occidente. Putin invece vorrebbe campo libero; e pretende il ritiro dei soldati Nato!

In realtà, anche l’eventuale ingresso dell’Ucraina nella Nato non cambierebbe il quadro strategico. La Russia non è “accerchiata”: le sue frontiere – dall’Oceano Pacifico, Cina, Pakistan, Kazakhistan, a Kaliningrad, solo in minima parte sono con Paesi Nato. La Nato è un’alleanza meramente difensiva che non ha mai invaso e non minaccia nessuno. Ha in Europa forze convenzionali e nucleari molto inferiori a quelle schierate dai russi (i soli che possono rapidamente aumentarle). L’esercito russo è moderno; gli eserciti Nato sono “leggeri” e spesso obsoleti. La Nato non ha nessuna capacità militare offensiva in Europa: è dubbio persino che abbia sufficienti capacità difensive.

Non so quale sia l’atteggiamento ideale di fronte alle minacce di Putin. Ma certo non sta alla Russia decidere gli assetti difensivi di Paesi sovrani intorno ai suoi confini. Purché tali assetti non diventino pericolosi per la Russia: il punto è che non lo sono affatto (ma si può sempre negoziare). In realtà Putin vuole l’Ucraina e i Paesi baltici, e rifare l’Urss. Troppi in Italia superficialmente cedono alla propaganda russa sulle presunte minacce Nato. L’atteggiamento quasi di equidistanza fra Russia e America, svogliato sulle sanzioni, infastidito dai diritti degli ucraini, tollerante verso l’imperialismo russo, è pericoloso per la pace.

Ho lavorato per anni in difesa dei diritti umani in America Latina, ho denunciato centinaia di volte le manipolazioni americane (anche sull’Iraq), non credo che qualcuno possa darmi lezioni sul tema. Ma tutto ciò non giustifica oggi alcuna equidistanza o sottovalutazione. Gli ucraini non sono merce di scambio strategica; così gli altri popoli dell’Europa orientale.

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Ucraina, coi negoziati Putin si crea una via di fuga. Ma ‘una risata vi seppellirà’

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Il Signore Oscuro di Mosca manda a morire migliaia di soldati per uccidere migliaia di ucraini (anche bambini? “C’est la guerre, mon bonhomme!”). Già che c’è, demolisce quel che capita a tiro. Ah, questi ucraini: credevano di farla franca? Il benessere, la libertà, l’Europa… Non si arrendono? Fanno le sanzioni economiche? Putin minaccia la guerra nucleare per la seconda volta in 15 giorni. È una fissazione! Allora è veramente pericoloso!

Le motivazioni di Putin

Ne ha offerte tre, false:

1. “de-nazificare” l’Ucraina;

2. fermare “il genocidio” nel Donbass;

3. impedire l’allargamento della Nato.

Poi una sera, forse complice la vodka o la musica di Čajkovskij, ha avuto un impeto, si è commosso, gli è scappata la verità: “Ma perché, perché, io vi domando, abbiamo rinunciato all’impero russo? Perché siamo stati tanto generosi da concedere l’indipendenza a queste Repubbliche?… L’Ucraina non esiste!”. Insomma, è roba sua. Nato o non Nato. Non solo l’Ucraina.

I tre falsi pretesti sono come sempre costruiti su mezze verità, o su verità usate strumentalmente. Ma il Presidente Zelensky è ebreo: eletto, ringraziò “quelli che combatterono il nazismo, e vinsero”. Nel Donbass fu l’Ucraina a chiedere la presenza di osservatori imparziali dell’Osce. Quanto alla Nato, la domanda di adesione dell’Ucraina è ferma dal 2008, per motivi di opportunità. Ma Putin chiede anche il ritiro della Nato da tutti i Paesi dell’Est. Altrimenti, come può ricostruire il suo impero?

Il meglio dell’umanità

Gli ideali degli ucraini che combattono, l’eroismo, la vecchia che affronta a viso aperto il soldato russo (“che ci fai qui?!”), la solidarietà equilibrata di tutto il mondo, il “no” secco e infastidito del Kazakistan alla richiesta russa di inviare truppe contro l’Ucraina, i (pochi) deputati della Duma che votano contro la guerra, i soldati russi svogliati, le manifestazioni dei giovani russi e bielorussi in quasi tutte le città in difesa degli ucraini, l’abbraccio delle due cantanti d’opera – russa e ucraina – al San Carlo di Napoli, il direttore d’orchestra russo che a Milano dirige l’inno nazionale ucraino, gli sportivi russi che parlano contro la guerra. Questi russi stanno preparando il futuro del loro Paese.

Il ridicolo

Putin voleva tornare al 1967, si è trovato in un mondo pieno di telefonini, dove tutti vedono tutto e alla fine capiscono. Ha trovato una Cia e un Presidente americano finalmente onesti e veritieri, che hanno avvertito il mondo di quanto stava per succedere; la Russia ha negato, negato… fino a perdere la faccia. Un mondo dove i giovani dei diversi Paesi viaggiano, comunicano, si conoscono, si amano. Un mondo con i confini aperti, poco interessato alle conquiste territoriali, dove l’identità è sempre meno etnica, dove la voglia di vivere e i problemi quotidiani fanno premio sulle stupide guerre di una volta: oggi le guerre si combattono su internet, o sui mercati, o negli stadi.

Gli abitanti di Kiev nei primi giorni sotto le bombe, più seccati che spaventati, non capivano che gli fosse preso, allo zar di Mosca: “Non è pazzo, è malato nel cuore!”. Per primi hanno reso evidente il lato superato, ridicolo di Putin. E del suo esercito terribile e senza benzina: “Volete un traino fino in Russia?”, domanda un automobilista. Pochi giorni fa ci si chiedeva: “Quanto giorni resisteranno gli ucraini?”. Oggi mi chiedo: “Quanti giorni sopravvivrà Putin?”.

In Russia, dagli studenti all’élite di regime, tutti ormai cominciano a rendersi conto dei danni gravissimi che sta infliggendo al loro Paese. Persino Lukashenko, il compagno di merende bielorusso, sta cambiando tono. La minaccia nucleare al mondo può essere la goccia che farà traboccare il vaso.

È vero, una armata lunga 5 km sta convergendo su Kiev; alla lunga, l’esercito russo è destinato a prevalere. E il rischio atomico, laddove c’è “un uomo solo al comando”, è reale. Allo stesso tempo, avviando un negoziato a Gomel, anche se solo per farsi beffe degli ucraini, Putin di fatto si crea una via di fuga dalla guerra. Una di queste due soluzioni – coventrizzare Kiev o fare pace – potrebbe ancora salvarlo. Con i suoi corifei europei, anti-americani e “de sinistra”, che rilanciano sui social, Putin potrebbe rispolverare il tema dell’allargamento della Nato per rivendicarne lo stop negli accordi di pace, e cantare vittoria.

In questo caso, sopravvivrebbe ancora un po’ e il cancro della pressione imperialista russa non verrebbe estirpato. L’Ucraina neutrale continuerebbe a sognare l’Europa, e l’instabilità regnerebbe ad est. Può essere. Ma ho l’impressione che, invece, una antica profezia sessantottina stia per realizzarsi: una risata vi seppellirà!

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Ucraina, l’unica via d’uscita per l’Occidente è far sì che i costi per i russi superino i benefici

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La dirigenza ucraina tratta con gli aggressori, mentre le sue città vengono bombardate, minacciate di essere “rase al suolo, se non si arrendono” (come ai tempi di Roma e Cartagine); i commandos russi cercano quella stessa dirigenza con cui trattano, per assassinarla. L’Occidente esalta gli ucraini e se stesso per le sanzioni “durissime” contro la Russia, per la sua “compattezza”. Fra pochi giorni il Presidente Zelensky, sua moglie e tanti altri saranno morti, alcune città spianate, la gente affamata e privata della libertà. Sull’Ucraina regnerà un improvviso silenzio, infranto solo dalle umiliazioni del fantoccio di Putin.

Date le prospettive, ieri le classi dirigenti occidentali non hanno offerto un bello spettacolo. Il Parlamento Europeo ha inscenato una gara di retorica fra i leader politici, mentre Zelensky in maglione, il volto sfatto dal sonno, in collegamento da Kiev chiedeva: “Cosa intendete fare in concreto per aiutarci?”. L’entusiasmo e il tripudio sono stati perfino maggiori al Congresso Usa, dove Joe Biden, nel discorso sullo Stato dell’Unione, ha partorito il topolino della chiusura dei cieli americani agli aerei russi. “Too little too late”, dicono da quelle parti.

L’Occidente non sparerà un colpo finché Putin non attaccherà i Baltici o altri territori dove vige l’alleanza Nato. Putin ne ha preso nota e si appresta a invadere la Moldavia (lo dice Lukashenko). A quel punto l’oltraggio dell’Occidente sarà massimo. Anche l’ipocrisia, di quelli che mettono sullo stesso piano vittime e aggressori: “Ma anche Cesare coi Galli…”, sì, lo so. Cosa può fare un Occidente in imbarazzo, stretto fra l’ipocrisia e la deriva nucleare? Abbiamo scelto di difenderci con la guerra economica. Ma non abbiamo calibrato le sanzioni “senza precedenti” sul risultato desiderato, bensì sul mettere a tacere le nostre coscienze da benpensanti. È vero, però, che stiamo scoprendo solo ora che la guerra è stata preparata per due anni e mezzo (incluse le riserve valutarie), che l’Ucraina viene colpita solo perché simpatizza con lo stile di vita e le istituzioni dell’Occidente, ed è solo il primo obiettivo.

L’Occidente ha l’enorme fortuna di avere incontrato una nazione che combatte per lui. Non solo infligge perdite al “nemico”; non solo mette a nudo le sue vere logiche. Zelensky tenendo insieme il popolo ucraino nell’ora più buia ha risvegliato l’Europa e l’ha cambiata in pochi giorni, per sempre. Per questo è diventato il bersaglio numero uno dei russi: egli è oggi il leader carismatico e morale dell’Occidente. Non possiamo permetterci di perderlo, né lui può salvarsi abbandonando il suo popolo: non sarebbe più lui.

Le sanzioni possono danneggiare l’economia russa nel lungo termine, ma non bastano per salvare l’Ucraina; né per fermare la guerra che Putin conduce con la strategia del 1935-38 di Hitler. Putin ha già messo in conto delle perdite, ma il suo personale calcolo dei costi e benefici considera accettabili perdite anche molto più elevate. Egli ha calcolato inoltre che l’elite russa può sopportare queste perdite e qualcun’altra ancora senza che il suo regime sia destabilizzato.

L’unica via d’uscita per l’Occidente, volendo evitare sia la guerra mondiale sia l’umiliazione completa, è di aumentare le sanzioni economiche fino al punto in cui i costi, nella logica dei russi, superino i benefici. Volendolo fare, tanto vale farlo prima che l’Ucraina cada. Si fa essenzialmente riducendo l’afflusso di gas verso l’Europa (e della valuta occidentale verso la Russia) dal 100% attuale subito a 70% e nel contempo lasciando trapelare ulteriori riduzioni, fino a 0% entro 12 mesi (non si può fare con il petrolio perché è un bene fungibile). Reggerebbero, le nostre economie? Sì (studio qui). Dovremmo fare sacrifici, razionare il gas? Assolutamente sì.

Chi farebbe più sacrifici? L’Italia e la Germania (i ceti deboli già patiscono per l’inflazione). Ci vorrebbe dunque un coordinamento europeo e uno domestico per redistribuire i costi. Ne vale la pena? Sì. Per la nostra dignità, oggi, di fronte all’Ucraina in fiamme. Per la nostra sicurezza e il nostro benessere di domani. Sì, perché la probabilità di fermare Putin senza sparare un colpo sarebbe elevata.

L’Europa si è sempre vantata di essere pacifica, di saper gestire le tensioni internazionali con il soft power. È il momento di dimostrarlo. Subito, ora. Ma i politici faranno quello che l’opinione pubblica e i sondaggi indicheranno. Perciò dipende da noi. La solidarietà con le vittime di questa guerra, la asserita difesa dei valori democratici, della pace, sono il frutto di emozioni superficiali e cangianti, o siamo determinati? Se non lo siamo, troveremo tanti pretesti per voltarci dall’altra parte: dove troveremo un milione di profughi. La questione è tutta qui.

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Pace in Ucraina, faccio appello a Handanovic-Romagnoli-Chiellini. In Russia il calcio ha potere

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Papa Francesco ha suggerito di contrastare la guerra in Ucraina con la preghiera e il digiuno. Egli ha anche fatto visita all’ambasciatore di Russia; sospetto che vorrebbe recarsi a Mosca, dove però non sarebbe accolto. La non-violenza può prevalere sulla guerra? So solo che l’Armata Russa, rifiutando ogni offerta negoziale, sotto ai nostri occhi s’appresta a ridurre un popolo in schiavitù e/o a commettere un genocidio che la resistenza e gli aiuti militari non riescono a fermare.

Per la pace, è dunque doveroso mettere alla prova anche gli strumenti della non-violenza. A parte le sanzioni (ancora deboli), l’altro strumento indicato è… la preghiera. Si può certo pregare e digiunare. Ma poi Dio, se interviene, lo fa solitamente tramite gli Uomini. Quali Uomini?

Nessun dittatore si mantiene al potere da solo: le sue sorti dipendono sempre da una minoranza privilegiata le cui preghiere di norma il dittatore ascolta. Perciò si tratta di pregare (e incentivare) quella minoranza, nella speranza che qualche cuore (o portafoglio) s’intenerisca. Quella minoranza a sua volta vive in simbiosi o in rapporto con i suoi clientes… le cui preghiere qualche volta ascolta.

Insomma, detto in modo più moderno: anche in Russia ci sono gli influencer. Devono diventare il target di una campagna di sensibilizzazione dei nostri influencer più appropriati (chi ha potere ha responsabilità). E dobbiamo chiederla noi privati cittadini, perché i governi su questo terreno hanno limiti evidenti.

Ed allora, ecco il punto. Chiedo ai capitani di Inter (Samir Handanovič), Milan (Alessio Romagnoli) e Juventus (Giorgio Chiellini) – le tre squadre italiane più famose – di coordinare un appello, condiviso con altri colleghi italiani ed europei, ai calciatori delle principali squadre russe, affinché questi chiedano alle istituzioni russe di: fermare la guerra; ritirare le truppe; e aprire negoziati leali e rispettosi dei legittimi interessi di tutti. Il calcio è il principale spettacolo in Russia, e i calciatori sono degli influencer.

Una simile iniziativa potrebbe fungere da modello per altri settori europei (sportivi, cantanti, attori, industriali, ecc.) i quali potrebbero rivolgere ai loro omologhi russi questa semplice preghiera: chiedete ai vostri leader di fermare la guerra. “Ci vuol altro”? Non vinci la lotteria se non compri un biglietto! O due. Altre iniziative oranti sono auspicabili.

Nel 452 Papa Leone Magno andò personalmente da Attila e lo convinse contro ogni aspettativa a ritirarsi dall’Italia. E allora, che i leader, e le persone note, di ogni settore, dall’Occidente vadano a Mosca: non a minacciare, non a negoziare, ma a pregare… Putin! Vadano loro che possono a rappresentarci, anche a Kiev, a Odessa, a Kharkiv, passando fra i carri armati, ad incontrare i sindaci locali, o in visita di Stato. Rischiando la vita: tanto si chiede ai leader – Zelensky docet – in questi frangenti. Come minimo non lasceremmo morire gli ucraini da soli; non ci vergogneremmo troppo; e mostreremmo a Putin che anche noi siamo di buona pasta.

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Guerra in Ucraina, non salvare Kiev significa accettare le nuove regole del gioco di Putin

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Il 21 febbraio sostenevo: “Putin vuole rifare l’Urss”. Quella stessa sera in tv il leader russo riconosceva ufficialmente le repubbliche separatiste del Donbass, sue creature. Inoltre negava il diritto di esistere dell’Ucraina, “creatura artificiale dei bolscevichi” e “parte inalienabile della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale”. E lasciava trapelare mire territoriali più vaste, non per rifare l’Urss, ma l’impero zarista. Queste dichiarazioni suscitavano allarme e proteste nei paesi vicini, in particolare in Kazakistan, costringendo Putin a smentire.

Le dichiarazioni di Putin dal 2004 ad oggi rivelano la mission che il presidente russo si è dato: rifare la grande Russia. Esse gettano luce su vent’anni di guerre in Cecenia, Georgia, Crimea, Donbass e Ucraina. Non si trattava di episodi locali ma di una grande strategia che prevede ancora l’annessione della Transnistria, il ridimensionamento di Lettonia, Lituania e persino della Polonia.

Putin presenta una versione “idilliaca” dell’imperialismo russo (Ucraina e Russia “indivisibili” fratelli, ecc.). Ma la sua visione non è condivisa dai popoli dell’Europa dell’est che per secoli hanno subito il tentativo dei russi di cancellare le loro identità. In Ucraina già un trattato del 1659 dava allo zar il potere di veto su nomine e politica estera dei cosacchi. Nel 1720 fu vietata la pubblicazione di libri in lingua ucraina. Nel 1804 fu proibito l’uso dell’ucraino nelle scuole. Dopo la carestia provocata del 1933 (quattro milioni di morti), la “russificazione” di Breznev generò altri martiri (Makukh, Hirnyk). Dal 2014 è ripresa in Crimea e Donbass. Insomma: “Every century, Russian leaders have continued the efforts to erase Ukrainian identity by attacking the use of the Ukrainian language, banning Ukrainian literature, persecuting Ukrainian cultural leaders and destroying any attempt Ukrainians have made to preserve their heritage” (C. Buchatskiy, Stanford).

“La Nato circonda la Russia”: le frontiere in comune

Quando Putin dice: “l’Ucraina non esiste” intende: “Non deve esistere”; una posizione tradizionale dei nazionalisti russi (la Nato è al tempo stesso un pretesto e un ostacolo da rimuovere). Perciò ora Putin martella sistematicamente obiettivi civili ucraini: scuole, ospedali, chiese, università, abitazioni. Il tiro al bersaglio sui corridoi umanitari accompagna la fuga di milioni di profughi; altri saranno poi deportati. Il “genocidio a metà” serve a traumatizzare e piegare chi resta cancellandone il mondo anche interiore, i legami, l’identità.

E gli ucraini? Quali i loro obiettivi? Sabato sera, a Otto e Mezzo, Concita De Gregorio e i suoi ospiti si arrovellavano sulla questione senza venirne a capo. Invasati? Zelensky è pazzo? S’illudono di battere i russi? E giù analisi sull’inevitabilità della sconfitta. In verità, gli ucraini hanno ben chiara la situazione. Non si arrendono perché preferiscono morire piuttosto che vivere in schiavitù. “Vogliamo la pace, ma l’Ucraina deve essere libera e indipendente” ripetevano ieri all’inviato di Rai2 due anziane signore di fronte al loro palazzo bombardato. Provano a cambiare l’equazione costi-benefici dei loro aggressori e a negoziare. In questo quadro, “solidarietà all’Ucraina, ma non diamogli armi” è una beffa.

Il peggio per loro deve ancora arrivare. Possiamo intervenire? Sì, se capiamo le (vere) regole del gioco. Putin è pericoloso, ma non è pazzo. Persegue una strategia razionale, prevedibile. Si è sempre mosso con cautela: celando le sue vere intenzioni; assicurandosi la neutralità cinese; attaccando i più deboli. Non comprometterà la posizione sua e della Russia “rilanciando” contro forze pari o superiori. Ma lo farà contro iniziative deboli (no fly zone) o eccessive. La minaccia nucleare è un bluff. Come dice Dugin, suo consigliere: “Se [in Ucraina] ci sarà un attacco diretto della Nato, la Russia risponderà con mezzi simmetrici [convenzionali]. Se ci sentiremo minacciati sul nostro territorio, useremo le armi nucleari”. La terza guerra mondiale? È già iniziata nella mente di Putin, quindi lo è. Ma l’enorme reciproca deterrenza indurrà, in tutti, grande autocontrollo (con i forti) e spietatezza (con i deboli).

“Salvare Kiev”? In gioco c’è molto più che l’Ucraina, come nel 1939 molto più che Danzica. Nel 1927 la Società delle Nazioni all’unanimità decise che la “guerra di aggressione” è un crimine internazionale. A Norimberga (1946) uno dei capi d’imputazione contro i nazisti fu “aver pianificato, iniziato e intrapreso delle guerre d’aggressione”, considerate il “crimine supremo”. Viceversa, veniva riconosciuto “the right of legitimate … resistance to an act of aggression“. Questi valori, opposti a quelli nazisti, sono oggi nella Carta dell’Onu. E nel martirio odierno degli ucraini c’è un elemento di scelta, un rifiuto all’abiura del diritto internazionale e della dignità, che è illuminante. Avrebbe fatto inorridire Machiavelli: il suo limite (di cui la nostra cultura è pregna) fu proprio quello di non considerare che certe sconfitte valgono più di certe vittorie.

Non salvare Kiev, per noi, significa accettare da ora in poi le nuove regole del gioco di Putin, significa aver già perso. Ma l’appello alla libertà che giunge dall’Ucraina (e dalle città russe) chiama in causa tutti quelli che, come Putin, vivono ancora nel mondo bipolare di Yalta, delle sfere d’influenza, dove è normale che la Russia (l’America, la Cina, …) reagisca nel suo cortile di casa. La linea di divisione fra liberali e yaltiani attraversa le nazioni anche al loro interno. Perciò quell’appello ha una valenza universale. E rinvia i nostalgici di Yalta alla Corte penale internazionale dell’Aja.

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I prossimi anni saranno difficili per l’economia globale: gli elettori devono votare senza illusioni

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Gli italiani sono preoccupati per il loro benessere. Ma forse, non abbastanza. I prossimi anni saranno difficili per l’economia globale; non è un bel momento per sognare: il risveglio potrebbe essere duro. Per difendere i livelli di benessere gli elettori faranno bene a mettere alla guida del governo un presidente del Consiglio molto capace di gestire l’economia. Possibilmente sostenuto da una classe politica non incline ad aprire guerre di religione, a dividere il Paese sui fondamenti del vivere civile.

Oggi l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale è focalizzata sulle borse (crollano), le banche centrali (alzano i tassi d’interesse), l’inflazione, la crisi energetica. Il presidente della Fed americana ha avvertito solo pochi giorni fa che intende alzare i tassi d’interesse più del previsto e ciò metterà in crisi la crescita e l’occupazione (“pain”). Ma altri problemi – soprattutto in altri continenti – complicano ulteriormente la situazione.

La mega bolla speculativa di borse, criptovalute e obbligazioni sta scoppiando, lasciando una scia di mutui e debiti privati che, con l’economia ferma, sarà più difficile onorare. La gente perciò risparmierà di più e consumerà di meno. Nello stesso momento, i governi di tutto il mondo stanno avviando una fase di austerità fra le più gigantesche che il capitalismo ricordi, per rientrare dai debiti creati durante la pandemia. Si tratta di altre due spinte recessive che si sommano a quelle delle banche centrali.

L’Europa e il Giappone, grandi importatori netti di energia, subiscono l’aumento dei prezzi internazionali del petrolio e del gas (+650% dai minimi del giugno 2020): il loro surplus commerciale è praticamente svanito. Correttamente, la Bce aspetta ad alzare i tassi d’interesse, per guidare prima al ribasso il cambio dell’euro: direi che ormai quasi ci siamo. Ma altri Paesi, soprattutto africani, subiscono l’impennata dei prezzi dei fertilizzanti e dei cereali: i governi ne sono destabilizzati (Sri Lanka). Anche l’economia cinese è avvolta in una ragnatela di problemi che vanno dal Covid alla crisi del mercato immobiliare.

A complicare il quadro ci si mettono i problemi “di lungo termine”, dall’invecchiamento delle popolazioni alla crisi climatica fuori controllo. La crisi idrica aggrava le crisi energetica, agricola, e sanitaria; la “transizione verde” è in stallo quasi ovunque perché mette sotto pressione le terre e i metalli rari, producendo altra inflazione.

In questo quadro di stagflazione e tendenziale de-globalizzazione, l’Italia non è un “vaso di coccio”: molti paesi poveri sono più fragili. I Paesi ricchi, quando certe risorse diventano scarse, pagano un prezzo più alto e si accaparrano ciò di cui hanno bisogno. L’Italia inoltre, in conseguenza delle politiche di austerità del decennio scorso, ha pagato tutto il suo debito estero; anche il saldo commerciale (nonostante l’energia) è ancora leggermente positivo. L’inflazione sotto la media europea mantiene la competitività. Ma il Bel Paese ha le sue fragilità e rischi.

Il primo rischio sono le spinte disgregatrici. È il momento di essere uniti, come italiani, come europei e occidentali. La Russia comincia a capire di non poter vincere con le armi la guerra (mondiale?) iniziata in Ucraina, ma conta ancora di vincere dividendo e destabilizzando il fronte delle democrazie dall’interno; a cominciare dall’Italia. Smentire queste aspettative è il miglior contributo che gli elettori italiani possono dare alla pace, premessa di un allentamento delle crisi summenzionate.

Il debito pubblico è (con l’energia) il nodo economico principale, perché i margini di manovra sono ora limitatissimi. Si suole citare “il rischio” che gli spread (l’interesse che lo Stato paga sul debito pubblico) salgano. Ma in realtà gli spread sono già molto alti (230 bp sul Btp decennale), un livello che non esiste altrove nel mondo sviluppato (se i tassi decennali sono parametrati ai “tassi di policy”): lo Stato italiano regala ai “cravattari” dei mercati finanziari circa 10 miliardi ogni anno (sottratti alle famiglie); e le imprese italiane pagano caro il credito. Anche le prospettive appaiono precarie. Le attuali regole (Maastricht) limitano le possibilità della Bce di contenere gli spread, destinati ad aumentare con l’incedere della recessione. In questo frangente, il rispetto delle promesse elettorali (ridurre le tasse, alzare gli stipendi, sterilizzare le bollette, ecc.) rischia di essere un boomerang.

Sarà cruciale per l’Italia partecipare alla discussione sulla riforma delle regole dell’euro, che si è aperta di recente. Con una visione su come azzerare (quasi) gli spread senza aggravare i problemi di azzardo morale, cruciali in ogni unione monetaria. Si tratta di proporre un cambio di paradigma radicale, che rimuova il nodo che soffoca l’Italia, ma al tempo stesso sia più che accettabile per gli altri Paesi membri; gli spazi per la politica di bilancio seguirebbero. Ma attenzione agli apprendisti stregoni.

Quando il gioco si fa duro, è il momento di schierare i duri. Oppure, di pagare conti salati. Gli elettori hanno in mano una parte cospicua del proprio destino. Occorre mettere da parte paura, rabbia, avidità per le mance politiche, e votare con freddezza, in modo adulto, senza illusioni. Tanto richiede la difficile navigazione nel mondo in tempesta.

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Putin inneggia all’autoritarismo e deride i diritti umani. La guerra all’Ucraina riguarda anche noi

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Notizie dall’Ucraina. “Purtroppo in quei nostri territori che sono stati recentemente liberati dall’occupante, in particolare nella regione di Kharkiv, si scoprono terribili scene di torture e abusi della popolazione civile. Conosciamo tutti le città di Bucha, Borodyanka, Irpin, Hostomel vicino a Kyiv. Ma quello che si presenta agli occhi a Izyum e in altre città della regione di Kharkiv, può essere decine di volte peggio” (Ševčuk, Arcivescovo di Kiev). “I russi intensificano gli attacchi contro le infrastrutture civili, anche se non hanno alcun impatto militare” (Intelligence britannica). “Quattro operatori sanitari sono morti… durante un bombardamento russo a Strelecha (Kharkiv) contro un ospedale psichiatrico” (O. Sinegubov). Da sette mesi quotidianamente, i russi infliggono agli ucraini indicibili violenze: bombardati, torturati, assassinati, affamati, (bambini) rapiti, deportati in Siberia, arruolati a forza, derubati, privati delle infrastrutture vitali…

Le notizie sono confermate da decine di Ong specializzate, centinaia di inviati della stampa internazionale, migliaia di immagini satellitari e video, dall’Onu, da confessioni di soldati russi, dalla coerenza con i comportamenti in altri teatri (Aleppo, Grozny, ecc.), dalle contraddizioni dei leader russi. I russi minacciano pure gli Usa se questi forniranno all’Ucraina missili a lungo raggio (304 km) che “potrebbero colpire città russe”. Missili che invece la Russia usa continuamente senza problemi contro le città ucraine.

Per quanto sgradevole, è importante definire la natura delle azioni russe e dell’ideologia sottostante. È una nuova forma di nazi-fascismo? Secondo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: “La tortura era una pratica diffusa nei territori occupati. Questo è ciò che hanno fatto i nazisti. Questo è ciò che fanno i russi. E risponderanno allo stesso modo, sia sul campo di battaglia sia nelle aule di tribunale. Identificheremo tutti coloro che hanno torturato, umiliato, che hanno portato queste atrocità dalla Russia qui, nella nostra terra ucraina”. Per l’ideologia, basta ascoltare Putin, che vuole rifare l’impero Zarista (cioè l’impero romano, come Mussolini; “Czar” è la versione russa di “Cesare”).

E considera: i piccoli paesi vicini, “colonie”, “privi di vera sovranità”; l’Ucraina “un’entità artificiale” che non ha diritto di esistere; i liberali russi “traditori”; le democrazie “regimi deboli e decadenti” (forse perché discutiamo alla luce del sole, e non osiamo praticare la pulizia etnica); la guerra ibrida di cui siamo oggetto da anni (propaganda, corruzione, destabilizzazione), premessa della “inevitabile guerra”: i paesi democratici mettono in testa strane idee di “libertà” ai suoi sudditi. Ecco il “nuovo ordine mondiale” di Putin e Xi. Qualcuno tuttavia crede ancora che dare del fascista a Putin non si può. Come un ignoto moderatore che, in calce a un post di Loretta Napoleoni, ha ritenuto di dover censurare il termine “nazi-fascista” in un mio modesto commento. Si legge: “Quando si scatena un attacco globale n*** così grave come quello di Putin e dei suoi gerarchi, qualche sacrificio economico è il prezzo minimo da pagare per conservare la libertà”. Indicativo.

Il direttore, pacifista, di Avvenire, Marco Tarquini, dichiarò a La7 in marzo: “Se Zelensky avesse accettato il passaggio offerto dagli americani [per evacuare da Kiev assediata, lasciando la capitale ai russi], oggi la guerra sarebbe finita e avremmo la pace”. Questo signore, che moraleggia indignato su chi sostiene l’Ucraina, non ha capito che “pace” non è mera assenza di combattimenti, ma relazione di reciproco rispetto. Fosse per lui, oggi l’Ucraina sarebbe un immenso lager. È importante capire. Perché se siamo di fronte a un nuovo fascismo, la storia c’insegna molte verità scomode. I fascisti sono un lupo: si traveste da agnello per confondere le menti deboli. Aggrediscono prede isolate e indifese, una dopo l’altra. Rispettano solo chi si fa rispettare. Fare compromessi su libertà e sovranità è miope. La fermezza è il modo migliore per contenere il virus della guerra.

La libertà va difesa come hanno fatto i nostri padri… Ecc. Il ministro degli Esteri lituano Gabrielius Landsbergis preme per l’invio di carri armati in Ucraina: “Le parole non sono riuscite a prevenire le fosse comuni. La sola condanna non porrà fine a questo genocidio”. Negli ultimi 20 anni i baltici hanno spesso avvertito del rischio di recrudescenza dell’imperialismo russo: sono stati derisi. Nello stesso periodo, giungevano per motivi diversi alle stesse conclusioni la scuola realista (Limes) e … la propaganda russa; la Russia avrebbe attaccato … per “difesa preventiva”! Grazie alle ammissioni di Putin oggi sappiamo che avevano ragione i baltici. C’è un lavoro sporco da fare, e non sarà breve.

Putin inneggia all’autoritarismo, all’imperialismo, deride i diritti umani e la dignità della persona; in realtà tradisce “i veri valori russi” (umanità, sentimenti, cultura). Molti russi si oppongono come possono alla guerra e all’autocrate; molti soldati rifiutano di combattere, o di eseguire gli ordini più obbrobriosi. Ma molti altri si rendono disponibili. C’è un problema di dirigenza, ma anche un problema di Russia profonda che, con le bombe atomiche in giro, non può essere ignorato. Il lavoro da fare non è solo militare, ma non può essere lasciato a metà. Né possiamo illuderci che, in un mondo globalizzato, una guerra del genere non ci riguardi. La politica italiana in questi giorni vende sogni a prezzi di saldo: diffidate!

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Giorgia Meloni, i miei consigli non richiesti per un buon governo. Partirei subito da tre questioni

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Dopo il risultato ottenuto da Fratelli d’Italia e alleati nelle elezioni politiche di ieri, la nomina di Giorgia Meloni a Presidente del Consiglio è ormai poco più che una formalità. L’evento – storico – sarà anche memorabile, o meno, a seconda di come la destra governerà. Le precedenti esperienze non sono state positive, né per l’Italia né per la destra stessa, tanto da concludersi spesso precocemente. Ora si aggiungono forti turbolenze internazionali, e un Paese indebolito dalla pandemia. Perciò la destra merita l’incoraggiamento generale e un “periodo di grazia”, in cui dimostrare di voler e saper governare per il bene comune. Più della dispersione di poltrone e denari pubblici agli “amici” (che stimola sempre nuovi appetiti e scontenti), ciò potrà dargli slancio e compattezza.

A mio avviso, tre sono le questioni su cui da subito, e nel primo anno, si misurerà la statura del nuovo Presidente del Consiglio, e riguardano l’economia e le istituzioni. Esse sono: (1) Gli investimenti pubblici del Pnrr; (2) I rapporti con l’Europa; (3) Le eventuali riforme istituzionali.

Per quanto riguarda il primo punto, è stato detto che il Pnrr andrebbe “rivisto” (Tremonti) o “rinegoziato” (Boeri). Ma in verità, non ci sono più i tempi tecnici (Franco) e si rischierebbe di perdere molti soldi. Meglio allora non cancellare quel che è stato fatto, accantonare le obiezioni ideologiche sulle destinazioni dei fondi; e partendo da qui andare avanti. Per essere precisi: il Pnrr è un’occasione storica che non si ripeterà per decenni; i soldi non dovrebbero essere sprecati né usati male; le P.A. hanno bisogno di altro tempo per affinare e implementare i progetti di investimento: più di quanto non è disposta a dare l’Europa. Ma se il governo vorrà alzare la qualità, senza illusioni dovrà schierare subito negoziatori di alto livello tecnico e diplomatico; ed un nucleo tecnico centrale a supporto delle amministrazioni più deboli.

Per quanto riguarda l’Europa, i precedenti governi di destra si sono scontrati con l’Ue, venendone destabilizzati (dall’aumento degli spread); e l’Italia ha subito seri danni economici e finanziari. Sarebbe pertanto un grave errore di presunzione sottovalutare ancora questa problematica. Per evitare che la Storia si ripeta, il Presidente del Consiglio potrebbe avvalersi di figure tecniche di rilievo anche politico, adeguatamente supportate (da uno staff qualificato) con accesso diretto alla sua persona e a quella del ministro dell’Economia. Queste figure dovrebbero contribuire in modo decisivo al disegno delle politiche macro-economiche, perseguendo gli obiettivi del governo ma nella “stabilità”.

È solo il caso di ricordare che i negoziati con l’Ue saranno continui, e non riguarderanno solo il bilancio dello Stato e le “riforme strutturali”, ma investiranno anche le cruciali “regole europee” (monetarie innanzitutto, e fiscali) che tanto ci penalizzano (lo spread è a 230bp e toglie già così allo Stato italiano una decina di miliardi l’anno). Esse vanno riscritte urgentemente (per generale ammissione), ma negli ultimi 25 anni l’Italia non ha proposto nulla di significativo (Bankitalia e MEF essendo ambienti di alto livello culturale ma conservatori, perché legati al fatale Trattato di Maastricht), per l’assenza di una visione profonda sulle soluzioni possibili e sul come arrivarci.

Per quanto riguarda le riforme istituzionali, infine, premetto: io lascerei perdere la Costituzione. La destra rappresenta una minoranza di italiani: una minoranza non si fa la “sua” Costituzione. Sarebbe il modo migliore per alzare la tensione, spaccare il Paese, nascondere i veri problemi, indebolire il governo. D’altronde, le riforme costituzionali non hanno mai portato fortuna a chi le ha promosse. Ma forse l’onorevole Meloni ci tiene troppo al “presidenzialismo”. Allora, che farebbe uno statista? Promuovere, assieme al presidenzialismo, un rafforzamento dei checks and balances democratici! Oltre ad essere una manovra corretta sul piano del disegno costituzionale, toglierebbe la terra sotto i piedi ai critici del governo. Ci sono tanti articoli della Costituzione ancora inattuati, o ignorati e da rivitalizzare… Ma anche qui, assumere un consigliere non di destra, di forte sensibilità democratica, sarebbe prezioso (per il governo).

Il messaggio di questo post è: non perdete tempo nell’organizzare le strutture tecniche necessarie per un buon governo. E tanti auguri! Ne avremo bisogno.

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Berlusconi condanna la resistenza ucraina: così tradisce la nostra civiltà

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“La guerra è colpa della resistenza ucraina”, dice Silvio Berlusconi ai suoi. Scandaloso? Forse. Ma Silvio è in ottima compagnia! Per esempio, il direttore del quotidiano cattolico Avvenire espresse lo stesso concetto (su La7) già ai primi di marzo: “Se Zelensky avesse accettato di lasciare Kiev, il giorno dopo l’invasione, come da proposta americana, invece di organizzare la resistenza: non avremmo la pace?!”.

Il direttore di Avvenire non è un forzista qualunque; tantomeno è sospettabile di essere al soldo di Putin. Non è neppure di destra! Ed è, si dice, “vicino al Papa”. Che è il principale “riferimento spirituale” degli italiani: secondo il neo Presidente della Camera Fontana (quello che in Donbass i referendum di Putin sono regolari, che “le sanzioni sono un boomerang”). Apprezzamento che gli è valso una telefonata del Santo Padre. In questa melassa, il pensiero va alle “parole dolcissime” che Vladimir “Uomo-di-Pace” avrebbe rivolto a Silvio. E a migliaia di cittadini “contro la guerra” che, unendosi a Fontana e Putin, lodano sui social “il coraggio” di B.

Sono tanti, sì: perché le parole di Silvio sono la logica conclusione di ogni pacifismo. Gli aggrediti si difendono, quindi “fanno la guerra”, quindi sono (altrettanto) colpevoli. Come i familiari dei desaparecidos, che nei tribunali argentini cercavano notizie dei loro cari, e giustizia. Gli venne opposta l’ideologia della pacificación nacional e l’amnistia per i torturatori, mentre qualche prelato spiegava l’importanza del “perdono”, e insomma, che la smettessero! O i miti sui polacchi “teste calde”, fino alla carica della cavalleria contro i panzer tedeschi (mai avvenuta!): miti creati ad arte dagli occupanti di turno. Polacchi per natura rompiscatole. Baltici e ucraini: pure. Proprietà transitiva.

Ma siccome non basta accusare i difensori di “far salire la tensione”, allora cominciano: la minimizzazione delle violenze (Bucha? Sarà vero?), la generalizzazione di peccati isolati dell’aggredito (“ucraini = nazisti!”), addirittura il transfert su un “colpevole” più credibile (gli Usa). Come previsto da Fedro:

Lupo: “Sei mesi fa parlasti male di me!”
Agnello: “Non ero nato.”
Lupo: “Tuo padre, per Ercole!, parlò male di me!”

Il pacifismo ha diverse motivazioni. Ma a volte è solo, per dirla con Natalie Tocci, “una misera foglia di fico per mal celare bieca ideologia, cinismo, e paura”. In realtà, “certi ambienti subiscono il fascino dell’uomo forte al potere, l’invaghimento per Putin. Ma questa è solo una minima parte. Il fattore dilagante è l’antiamericanismo, una difficoltà incomprensibile di scindere le cose: gli Usa possono aver commesso errori, invasioni e violazioni dei diritti umani, ma i fatti in Ucraina raccontano un’altra storia. È un altro film. E poi c’è il complottismo, che nel nostro Paese attecchisce con facilità”.

Il pacifismo paralizza la difesa del diritto internazionale e dei diritti fondamentali dell’Uomo e dei Popoli: vita, libertà, dignità, non essere torturati, stuprati, bombardati, affamati, ecc. E apre le porte a un mondo governato secondo criteri fascisti. Per questo le parole di Berlusconi e dei pacifisti suscitano entusiasmo sui media di regime russi (e su quelli del neo-fascismo internazionale): non perché i fascisti siano “uomini di Pace”, ma perché il loro grande terrore e odio sono i Churchill di ogni epoca. Gente che avanza senza debolezze un ideale opposto al loro di convivenza civile. Ma bisogna anche dire che la reazione di Giorgia Meloni è stata da sogno: “Chi non condivide la linea atlantista è fuori, a costo di non fare il governo”. Chi l’avrebbe mai detto?

B. invece è stato tradito dalla mancanza di valori. I suoi pensieri – lui forse neanche se ne rende conto – rappresentano un tradimento della nostra civiltà liberal-democratica. E se oggi tradisce gli ucraini, per i propri comodi… domani, se alle strette, non venderebbe la Romania, o la Sicilia… o ciascuno di noi? Le sue sono solo parole, certo: ma i totalitarismi iniziano sempre dalla manipolazione del linguaggio. Quello mellifluo è tipico dei dittatori (e dei loro amici). Urge rileggere Orwell, Huxley… o Tolkien, il suo bellissimo, profondissimo dialogo “La voce di Saruman” (Il Signore degli Anelli, Le Due Torri). Che dice tutto, in anticipo di 60 anni.

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Tutti vogliono andare a Pompei, ma Oplontis è altra cosa. Cari archeologi, piano con gli scavi!

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Oplontis, luogo “segreto” e meraviglioso. Segreto? Fino a un certo punto: nel 2019 è stato visitato da 55.594 persone (+44% sul 2000)! Si tratta pur sempre di piccoli numeri, rispetto al mezzo milione di visitatori di Ercolano e ai 4 milioni (+67%) di Pompei.

Tutti vogliono andare a Pompei. Eppure, a Pompei non è rimasto nulla, a parte le mura, le strade, e la Villa dei Misteri: bisogna leggere le aride pietre, per intuire l’antica vita quotidiana. Per esempio, i 55 fast-food e i 600 negozi (a riconoscerli!) per 11.000 abitanti, i graffiti (a trovarli! A decifrarli!), il sistema idrico e stradale, la struttura delle abitazioni, ci parlano di un’estrema divisione del lavoro (benessere), dell’alfabetizzazione (spettacolare), di politiche pubbliche, della vita domestica accogliente verso gli altri, ecc.. Ma non è un linguaggio immediato.

Pompei è stata saccheggiata più volte: la prima dopo l’eruzione del 79, dai suoi stessi abitanti in cerca dei loro tesori, e su indicazione di Tito (voleva recuperare i marmi). Poi giunsero i Borboni, i tombaroli, i bombardieri Usa, i turisti… E gli archeologi! A scopo conservativo non lasciano nulla nelle domus/insulae. Quanto ai pochi affreschi non asportati, e ai graffiti, il sole e la pioggia li sbiadiscono inesorabilmente.

Oplontis è altra cosa. La Villa A (l’unica visitabile) è sfarzosissima. Dedicata all’otium, era situata su una scogliera di 15m a picco sul mare ma con una serie di pianori a scendere intagliati nella roccia, per consentire agli ospiti di prendere il sole contemplando il Sinus Cumanus (o Crater), con discesa a mare e porticciolo privato. La proprietaria era forse Poppea, vera poupée de luxe del I° secolo, e seconda moglie di Nerone. Non stupisce che gli affreschi (e i colori) siano mozzafiato: la qualità è tale da rivaleggiare con i maestri del Rinascimento.

A Oplontis, che si trova nei pressi di Torre Annunziata, gli archeologi scavano dal 1964. Hanno ricomposto e riportato i frammenti degli affreschi sulle pareti (in parte ricostruite), hanno messo i tetti (riparano dalle intemperie). La “Villa A” al momento dell’eruzione era quasi vuota, per una ristrutturazione: gli archeologi si sono limitati a portare via le 15 statue che circondavano un tempo la grande piscina (61x17m): da 50 anni giacciono mestamente in un polveroso deposito. Gli affreschi però sotto il profilo estetico sono immediatamente fruibili.

Ma, nonostante la copertura dei tetti e le precauzioni, gli affreschi di Oplontis non sono più come una volta. Sono come una splendida quarantenne. I colori ancora meravigliosi stanno perdendo brillantezza. La Villa A è aperta al vento e alle intemperie; su alcuni dipinti batte il sole! All’ingresso, ai visitatori non vengono tolti zainetti e ombrelli, come avviene al MoMa di New York. I turisti si aggirano alitando sulle pitture, toccando, appoggiandosi; ogni tanto qualcuno si gira e per errore, con lo zainetto o l’ombrello, graffia la parete. Nel grande complesso (100x200m) rimangono due soli anziani guardiani.

I progressi nella gestione dei siti pompeiani, negli ultimi 12 anni, sono stati enormi. Fra l’altro, oggi stanno ri-assumendo qualcuno. Tuttavia, i problemi non hanno origini solo finanziarie, ma anche culturali. Vietare zaini e ombrelli non costerebbe nulla. Proteggere (anche solo con un telo spiovente dal portico) gli affreschi dal sole idem. Mettere delle ringhiere (brutte) o un elegante cordone, per tenere i turisti a 20cm di distanza dagli affreschi, costerebbe pochissimo. Cartelli che pregano di non avvicinarsi, idem. Non salveranno i capolavori antichi dalla prossima eruzione del Vesuvio; almeno ne rallenterebbero la scomparsa.

Quanto ai provvedimenti onerosi: se mancano i soldi per conservare, non condivido l’entusiasmo per l’imminente ripresa degli scavi alla villa B. Cari archeologi, a mio umile avviso, non solo nei siti pompeiani, urge una pausa di 5-10 anni negli scavi, per mettere in maggior sicurezza i beni archeologici esistenti o che emergono durante i lavori pubblici. Amorevolmente preservati da madre Terra per millenni, non abbiamo il diritto di distruggerli in 100 anni. Lasciamo qualcosa alle future tecniche conservative e interpretative.

Intanto, servono: (1) Nuove regole di fruizione; (2) Investire nel contrasto a tombaroli, furti, e mercato nero; (3) ) Riaprire i Musei chiusi (ad es. il Museo della Civiltà Romana a Roma); (4) Riportare nei siti di origine (le vuote case di Pompei), sotto vetro, qualche reperto originale, e: copie, fotografie, elenchi di quel che è stato trovato, per dare un senso agli ambienti. Rivisitare gli scantinati, proteggere, digitalizzare, valorizzare in modo permanente i reperti depositati. Restituiamo a Oplontis le sue statue! (5) Riconsiderare le politiche di prezzo: 5 euro per Oplontis, per i non residenti è poco; (6) Migliorare il marketing, favorire i piccoli musei: mettendoli in rete con i grandi; prevedendo visite guidate speciali e salate curate dagli archeologi che hanno scavato nella zona; (7) Seriamente, un Piano se il Vesuvio entra in fase eruttiva?!

In conclusione: vi prego, non andate a Oplontis a fare danni! Andate a Piazza Armerina, dove le visite sono calate del 40% nel ventennio pre-covid. I suoi mosaici non sono meno straordinari, ma molto meglio protetti, perciò meno fragili. Quanto a me, ho parlato di Oplontis per (non) parlare delle sfide altissime di Pompei.

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Per rifondare il Pd non occorrono nuovi ideali: basterebbe ritrovare quelli storici del riformismo

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I medici, al capezzale del Pd, su un punto concordano: “Mancano le idee!”. S’intende, su come governare l’Italia. Molti dirigenti invocano una “rifondazione”, dopo aver condotto il partito (e il Paese) in uno storico cul de sac. Nasce un “Comitato Costituente”, 87 nominati da Letta. Anche se un “Manifesto dei Valori” già lo scrissero, dopo molti seminari, nel 2007. Ma un ex Segretario invoca “idee spendibili subito”. Servito! S’annuncia “la prima iniziativa della nuova fase costituente”, una “controproposta di legge di bilancio“.

Tale dibattito mira all’auto-conservazione delle élite. Difatti, per rifondare il Pd non occorrono nuove missioni, ideali, obiettivi: basterebbe ritrovare quelli storici del riformismo, da Turati in poi: democrazia; giustizia sociale; ambiente, pace, ecc. Quanto alla loro concreta declinazione, università, centri-studio, fondazioni, esperti sono ricchi di strategie e progetti di alto livello. Basterebbe organizzare l’ascolto e recepire. Ma il Pd è impermeabile alle idee. Come mai?

Il problema è la rappresentanza degli interessi, cioè la democrazia interna. Che, parafrasando Gaber, “è partecipazione”. Perché i dirigenti ripetono: “dobbiamo tornare nelle periferie”; mai: “lasciamo entrare le periferie”? Perché restano fuori quasi tutti i leader sociali, gli intellettuali, gli iscritti dei Circoli (divenuti irrilevanti sfogatoi); gli elettori (chiamati solo a plebiscitare i “big”)? Perché nel Pd si entra solo se cooptati! Già Veltroni: hey, ho candidato “un giovane”, “una donna!”, “un nero”, “un operaio della Thyssen”… Questa era la sua “apertura alla società civile”.

Il tesseramento è in crisi, i sondaggi negativi. Cottarelli a Milano rileva un “odio profondo” per il Pd da parte dei “suoi stessi elettori”. Che Gianni Cuperlo non si spiega: “Sono stanco di ricevere sputi e insulti … da quelli che ci spiegano cosa fare e pensare con tono denigrante … gli stessi che quando il potere abitava qui erano qui a coglierne riflesso e utili”. Insomma: cooptati ingrati! La cooptazione non ammette critiche. L’odio nasce da qui: dall’ipocrisia dei riti democratici privi di contenuto, dalla democrazia tradita.

Una concezione “democratica” meramente formale finisce per investire le istituzioni del Paese, causandone il declino. Difatti il Pd, “Partito della Costituzione”, ha contribuito a rendere il Parlamento un luogo pletorico (S. Cassese), fra l’altro con l’abuso dei decreti legge. Ha attaccato l’art. 138 Cost., che la protegge dai colpi di mano. Ha cambiato un terzo della Costituzione in senso semi-autoritario, venendo fermato per referendum. Ha messo a rischio la tenuta democratica del Paese con leggi elettorali incostituzionali (fortuna che Meloni non è Mussolini). Gli elettori non possono scegliersi i propri rappresentanti: invece di far funzionare il sistema delle preferenze lo hanno abolito.

Diversi articoli della Costituzione sui diritti attendono dal 1948 la legge di attuazione: come gli art. 39 e 49 sulla democrazia nei sindacati e nei partiti! E se “la democrazia ha bisogno di manutenzione” (P. Scoppola), delle crepe che emergono – tre esempi: l’impotenza della Corte a vagliare in via principale la nuova legislazione; i conflitti di interesse dei membri delle assemblee elettive e relativi poltronifici; l’assenza del numero identificativo sui caschi degli agenti di polizia – il Pd non si cura. Perché allora gli italiani non dovrebbero rivolgersi ad altri modelli politici e costituzionali potenzialmente autoritari, nell’illusione eterna che un rapporto diretto con i leader offra al popolo maggiori leve?

La democrazia dentro e fuori il Pd non sarà al centro delle preoccupazioni della gente. Ma con il suo declino, dal 2007 (nascita del Pd), non per caso, disuguaglianze e povertà sono cresciute (indice Gini +1,8). L’adesione acritica, ideologica, al paradigma neoliberista dell’euro ha comportato: una caduta del Pil pro-capite del 7%, l’interruzione del calo secolare degli incidenti sul lavoro, l’aumento del debito/Pil da 104 a 147% e una spesa “eccessiva” annuale per “spread” di 25 miliardi (sottratti al welfare), di cui non si vede la fine. Per fare scelte sciagurate, il Pd ha rotto i rapporti con Ong e intellettuali di riferimento (keynesiani, costituzionalisti, politologi), salvo i tre cooptati per dare ragione al Capo.

Non tutto va male per colpa del Pd, no. Ma il Pd come minimo non ha mai presentato un piano organico per manutenere la democrazia, abbattere la povertà, per la transizione ecologica, per una riforma strutturale dell’euro, per l’ordine mondiale… Però ha le idee chiare sugli stipendi dei parlamentari più alti del mondo (grafico): “Garantiscono autonomia, disciplina e onore!” (Boldrini).

I candidati nazionali promettono di mettere fine alla cooptazione, di aprire il partito. Ma non dicono come. Al Congresso si va senza un dibattito strutturato, tempi congrui, regole certe. Per presentare mozioni (e candidarsi) occorrono decine di migliaia di firme di iscritti da tutt’Italia, i cui nominativi (email) sono uno dei segreti meglio protetti del Pd.

Qualche misura pre-congressuale di buon senso sarebbe ancora possibile:

1. Una Commissione di Garanzia realmente autonoma;
2. Superare le liste bloccate per l’elezione dei delegati;
3. Rendere pubblico il numero degli iscritti, con dettaglio regionale, e le email dei circoli. Inviare a tutti gli iscritti tutte le mozioni congressuali pervenute, per garantire pari visibilità e pari possibilità di raccogliere le firme necessarie;
4. Più di due candidati abbiano accesso alle Primarie.

Quale candidato nazionale appoggerebbe queste minime proposte?

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Pd, ai quattro candidati alla segreteria un appello per la democrazia partitica

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È uscito su Huffington Post un dettagliato appello per la democrazia nei partiti indirizzato ai quattro candidati a Segretario nazionale del Pd, ma idealmente rivolto a tutti i partiti. L’aspetto interessante a mio avviso è il collegamento che gli autori – fra i quali il Cordialmente Vostro – stabiliscono fra: democrazia nei partiti, nelle istituzioni, buongoverno e possibilità di ripresa dell’Italia.

Il degrado della democrazia è come la rana in pentola: quella che, per la gradualità del riscaldamento, non s’accorge di finire bollita. L’Italia è ricca di competenze. Ma la politica non è in grado di mettere ciascuno a fare quel che sa meglio fare perché distribuisce i posti pensando a quel che può prendere e non quel che ciascuno può dare. Ora il secondo partito italiano va a Congresso: ci sarà uno fra Stefano Bonaccini, Gianni Cuperlo, Paola De Micheli ed Elly Schlein che voglia provare a restituirci una politica degna di un Paese moderno e che oltre la retorica abbia qualche idea sul “come” farlo?

La “Lettera aperta ai Candidati del Pd” comincia rilevando “un profondo deficit di democrazia nel Pd che frustra la volontà di partecipazione della base, le possibilità di autofinanziamento e le prospettive elettorali del Partito”.

Il Pd – sostengono gli autori – “non è realmente contendibile per le difficoltà evidenti di presentare mozioni e candidature”, fatta eccezione per “pochi insiders” protetti da regolamenti su misura. Ciò “alimenta una cultura malata della democrazia che si riflette drammaticamente nella concezione proprietaria delle istituzioni, tipica della politica italiana (dove) prosperano la cooptazione, il clientelismo e la corruzione”. Ai candidati si chiede: “un rigoroso impegno per il rilancio di una piena democrazia in Italia, della Costituzione e di una partecipazione informata e consapevole della società civile, a cominciare dalla democrazia interna del Pd”.

Dopo aver avanzato 18 proposte concrete per la democrazia in Italia e nei partiti (Pd), gli autori concludono: “Riteniamo che il Pd debba dotarsi nei prossimi anni di una linea politica profondamente rinnovata, in particolare su: istituzioni, Europa, immigrati, scuola, sanità, welfare, ambiente e molti altri temi dando spazio alla partecipazione e al voto” degli iscritti. “Riteniamo infatti che la svolta politica auspicata vada realizzata da mozioni congressuali (anche contrapposte) di alto profilo, le cui implicazioni siano vagliate e dibattute dalla base del Partito. Una non meramente formale democrazia interna è condizione necessaria per la svolta”.

Come si vede, una concezione vicina allo spirito della Costituzione, lontanissima dall’impostazione plebiscitaria e, in fondo, autoritaria e conservatrice delle cosiddette primarie. Dove il popolo viene convocato per acclamare i leader rigorosamente espressi dai meccanismi cooptativi scegliendone uno tra quattro che tanto si assomigliano e che tanto assomigliano a quelli di ieri. Un’altra politica è possibile? Qui il testo integrale della Lettera Aperta ai Candidati, per un vero percorso ri-costituente del Pd.

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Terremoto in Turchia e Siria, non basta delegare: vorrei che le istituzioni ci aiutassero a mobilitarci

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Le notizie che giungono dalla Turchia e dalla Siria generano, come sempre in questi casi, un senso di sgomento e di impotenza. Dal caldo delle nostre case guardiamo in tv i superstiti intirizziti aggirarsi nella neve, senza più nulla: con le nostre risorse sovrabbondanti vorremmo dare una mano ed essere vicini. Ma il nostro desiderio (di umanità) è frustrato dall’immensità della catastrofe e dalla distanza.

La Protezione Civile rassicura le nostre turbate coscienze: “Il nostro Paese ha offerto un modulo Usar (ricerca e soccorso in ambito urbano), messo a disposizione dai Vigili del Fuoco e composto da 57 operatori, di cui 11 medici e 12 tonnellate di attrezzature, che nelle prossime ore partirà per la Turchia”. Meno male, ci pensano loro! E i volontari? Dove sono i volontari? Le Protezioni Civili europee provano a organizzarli e coordinarli, però in numeri minimi. Quella italiana in teoria pesca da un ampio pool di Ong associate; in pratica verranno coinvolte poche persone.

Ai comuni mortali non resta che inviare denaro tramite Caritas, Unicef, Cei (otto per mille), ecc. Però non sai mai quando una data organizzazione ha già raggiunto il suo target; o come, e quando, spende i soldi. La Protezione Civile non potrebbe coordinare questi aspetti informativi cruciali? Ad esempio pubblicando, per ogni singola emergenza, un elenco di Ong con i loro obiettivi di entrate e di spesa e quanto hanno già ricevuto? Anche per darci degli obiettivi. A volte poi, le nostre case sono piene di roba inutilizzata che non riusciamo a riciclare e di cui ci libereremmo più volentieri dei soldi. I bonifici disumanizzano la carità trasformandola in anonime transazioni finanziarie. Viceversa, preparare pacchi dono c’impegna, ci costringe a pensare al destinatario, a entrare un poco di più in relazione. E la relazione è importante per tutti.

Oggi in Turchia e Siria c’è bisogno di vestiti caldi e nel brevissimo termine sarebbero più utili dei soldi; noi ne abbiamo e vorremmo donarli, ma non sappiamo come. L’intervento diretto della Protezione Civile resta pur sempre una preziosa goccia nel mare. Ma 60 milioni di italiani – fra cui 6 milioni di volontari – potrebbero e vorrebbero fare di più. Come già durante l’emergenza Covid, ci piacerebbe che la Protezione Civile e le istituzioni aiutassero il Paese a mobilitarsi, invece di abituarlo solo a delegare.

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